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Condannati i rapper che profanarono Redipuglia: monito sullo ius scholae

Giustizia giusta. Una volta tanto, anche nel nostro paese.

E’ infatti arrivata la condanna definitiva in Cassazione per i due rapper il ghanese Justin Owusu e il suo complice Mattia Antonio Piras. I due rapper s’erano resi protagonisti nel 2017 di un’ignobile sceneggiata nel Sacrario di Redipuglia, in provincia di Gorizia, dove riposano le spoglie di oltre centomila soldati italiani caduti nella Grande Guerra, di cui 60.330 rimasti senza nome. Accanto a loro, la pietas postbellica ha fatto realizzare un ossario anche per 14.000 caduti austroungarici.

I due avevano inscenato un videoclip con un loro pezzo rap, intitolato “CSI, Chi Sbaglia Impara”, saltellando sulle gradinate del sacrario, sulle lastre di pietra al di sotto delle quali sono conservate le ossa dei caduti.

Diffuso su Youtube il 10 aprile del 2017, “Chi Sbaglia Paga” provocò indignazione e la querela arrivò doverosamente a stretto giro. L’accusa – ai sensi dell’art. 408 del Codice Penale – era “vilipendio di tomba”. Inutile la difesa dei due rapper, che si sono trincerati dietro il paravento della “forma d’arte” e – ovviamente – del “razzismo” nei confronti del ghanese: “Sono sicuro che il trattamento sarebbe stato ben diverso se a girare il video fosse stato un gruppo di danzerini friulani con ai piedi i tradizionali scarpèts” avrebbe sostenuto l’avvocato di Owusu. Il 22 settembre la Cassazione ha depositato le motivazioni della conferma della condanna a 8 mesi per Owusu e 6 per Piras, emessa a giugno scorso.

In esse la Suprema Corte ha chiarito che il reato di vilipendio di tombe non richiede necessariamente un intento offensivo specifico, ma si configura quando un comportamento risulti oggettivamente irrispettoso nei confronti di luoghi dedicati alla memoria dei defunti. Nella sentenza, i giudici hanno sottolineato che la “pietà per i defunti” è un bene giuridico protetto, indipendentemente dalle intenzioni degli imputati.

Il sindaco Cristiana Pisano, nel luglio 2023, difese la sentenza della Corte d’appello di Trieste, ricordando la natura sepolcrale nel monumento e le regole ferree del luogo: “se sul Sacrario, che ricordiamolo è un cimitero, per esempio non è permesso andare con il cane né in bicicletta, figuriamoci fare i balletti rap. L’articolo del Codice penale che si riferisce a quel tipo di violazione parla chiaro: al luogo si deve adeguato rispetto”. 

Il tema del “razzismo” vellicato dal difensore di Owusu è interessante soprattutto in questi giorni di dibattito sul cosiddetto “ius scholae”. E’ davvero sufficiente passare alcuni anni sul suolo del nostro paese per guadagnare una sorta di “titolo di merito” con cui pretendere la cittadinanza italiana? Owusu sempre nel 2017 realizzò un video musicale intitolato “Italiano vero” in cui – a suon di luoghi comuni – sosteneva la causa dello ius soli. “Sono un italiano vero, sono un italiano nero, sono un italiano fiero” recita questo pezzo con accento esotico e auto-tune. La “fierezza” del rapper si era concretizzata nell’andare a ballare sulla testa di centomila ragazzi morti in una guerra la quale – evidentemente – risulta del tutto aliena all’identità nazionale conquistata cantilenando dal giovane ghanese. Che del resto riassume la sua italianità nel aver “subito il razzismo e mangiato quantità di pasta”.

La condanna dunque arriva al momento giusto: veramente l’Italia dovrebbe aprire ancora di più i cordoni della concessione della cittadinanza, essendo già il paese europeo senza ius soli (che – ricordiamolo, è una legge coloniale che serve a garantire ai figli dei coloni diritti sul suolo del paese colonizzato) che ne elargisce di più? Non sarà anzi addirittura il caso di rilanciare, e oltre al più reciso e categorico NIET a questa proposta auto-genocida, iniziare a ragionare anche su come sia possibile non tanto che un ghanese se ne freghi di centomila morti italiani (che tutto sommato non sono suoi, non rappresentano il suo retaggio culturale e la sua eredità storica) ma che con la stessa indifferenza si comporti un italiano come Piras?

E’ il caso di aprire un dibattito su quella che oramai è la “subcultura giovanile” più pervasiva, quella veicolata da trap, rap e hip-hop, generi “musicali” che correttamente una giornalista controcorrente come Candace Owens ha definito non musica, ma “cultura gangsta” (ossia l’atteggiamento scimmiesco, strafottente, plebeo delle gang giovanili di colore) creata a tavolino come forma di ingegneria sociale catagogica: un sistema per abbassare il livello culturale, le aspirazioni, la qualità umana delle minoranze afroamericane ma anche per ridurre al loro stesso livello i bianchi che vi aderiscono per conformismo. Una subcultura che mai come dai tempi degli “urlatori” a Sanremo Mamma Rai ha invece – stranamente! – deciso di spingere a telecamere riunite nei suoi programmi, quando invece aveva fatto letteralmente muro contro ogni altra forma di subcultura musicale artisticamente molto più valida, dalla new wave al metal alla musica elettronica.

Il problema non è integrare chi viene da fuori – semmai è fare in modo che torni indietro al luogo a cui appartiene – il problema è tenere integrati i nostri, che invece, grazie all’ignoranza oramai sempre più diffusa della nostra storia e a operazioni di ingegneria sociale come quella della subcultura trap-rap, è evidente che non sappiano neppure chi sono.

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