Raimondo Scintu: per l’onore della Sardegna e della famiglia

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Ci sono storie che hanno bisogno di una premessa, di questi tempi: sono storie vere, in cui nulla è inventato. Sono storie più spettacolari di qualunque sceneggiatura di film d’azione hollywoodiano, tanto che la vera sorpresa è che ancora nessuno abbia pensato di usarle come soggetto per un film o una serie tv.

Fra queste ci sono le straordinarie imprese di Raimondo Scintu, pluridecorato della Grande Guerra, fegataccio che il maggiore Dutch Schaefer gli poteva fare da attendente, uomo la cui modestia era pari solo al coraggio temerario che gli fece guadagnare le sue decorazioni, e che dopo la guerra lo riportò nell’ombra da cui era partito, all’umile lavoro di tramviere. Senza fronzoli, senza fanfare, senza tante parole. Taciturno e tosto come la sua gente, i sardi.

La vicenda che andiamo a raccontare è davvero incredibile. Tanto che – quando ne parlammo per il Centenario della Vittoria nella Grande Guerra sul collettaneo Eroi (Idrovolante edizioni) fummo costretti a ripetere questa stessa premessa: è tutto vero. Al di là della veste letteraria tutto ciò che ne era alla base era rigorosamente documentato.

Scintu, dalla Sardegna con durezza

Raimondo Scintu nacque il 24 settembre 1889 a Guasila, un piccolo paese del Cagliaritano, immerso tra i campi e la calma della campagna, uno dei sette figli di Salvatore e Saveria Enis. Un uomo semplice, un contadino dal cuore e dal fisico forte anche se piccolo di statura, con lo sguardo altero, laconico nel parlare. Partito militare di leva, una volta assolto il suo servizio militare fu però poi richiamato alle armi quando l’Italia entrò nella Prima guerra mondiale il 24 maggio 1915. Come moltissimi suoi conterranei fu assegnato al 151º Reggimento Fanteria della gloriosa Brigata Sassari, si trovò presto a fronteggiare il fragore delle trincee sul Carso, tra il fumo e il fango di Bosco Cappuccio, Monte San Michele e l’altopiano dei Sette Comuni.

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Il 10 giugno 1917, negli scontri sul Monte Zebio Scintu si guadagnò la prima decorazione. Caporale ciclista, fu comandato come portaordini, incarico rischioso, esposto al tiro dei cecchini e della fucileria e alle schegge d’artiglieria, attraverso il terreno scoperto. Le prime imprese di Scintu fecero il giro dei giornali: durante gli scontri si trovò gomito a gomito col fratello Giovanni, di cinque anni più giovane, che aveva chiesto e ottenuto di essere incorporato nello stesso reparto di Raimondo. Divenne poi famosa la frase che Raimondo disse a Giovanni: “Ricordati di andare sempre avanti e di fare onore alla Sardegna e alla famiglia Scintu”. La battaglia per le trincee lo vide sempre all’assalto, perfino in piedi fra i proiettili, a incitare i compagni: con il fratello riuscì a prendere una trincea nemica, dalla quale poi ritornò indietro trasportando sulle spalle un compagno, uno zappatore, ferito. Incurante delle pallottole, poi riattraversò il terreno sotto il tiro nemico rientrando nella trincea appena occupata, mentre Emilio Lussu, capitano del 151°, gli urlava “torna indietro che ti ammazzano!”. Il combattimento con gli austroungarici fu furibondo e il nemico faticò non poco nel suo contrattacco contro la tempra dei sardi: animati e incoraggiati da Scintu, si difesero a colpi di moschetto e bombe a mano, catturando pure sette prigionieri. Quando alla fine la preponderanza degli austroungarici costrinse il reparto dei sardi a ritirarsi, Raimondo Scintu riportò indietro i suoi compagni superstiti, agendo col coraggio, la tempra e la responsabilità di un ufficiale. Per le sue gesta venne decorato della sua prima medaglia, d’argento al valor militare.

Tre mesi dopo, con il trasferimento della Sassari sulla Bainsizza, l’impresa che lo consegnò alla leggenda, immortalata da Achille Beltrame sulle sue celebri copertine de “La Domenica del Corriere”.

“Io vado”

Il 16 settembre 1917, le truppe sarde furono mandate a occupare quota 878 dello Zgorevnice, in Valle Isonzo. La battaglia, affrontata insieme ai compagni della Vicenza fu durissima e durò settimane. Nei suoi primi fuochi, Scintu dimostrò la sua tempra: i comandi italiani avevano bisogno di informazioni sul dispositivo nemico e il maggiore chiese (letteralmente, chiese) al suo caporale se volesse andare avanti con una pattuglia. La risposta di Scintu fu da spartano: “Io vado”. L’azione fu però contrastata dal fuoco di sbarramento nemico, tanto che i suoi compagni si demoralizzarono: “Gli austriaci ci ammazzano” disse qualcuno mentre proiettili e schegge fischiavano ovunque. Scintu non si scompose: “Voi state lì, vado io solo”. Incredibilmente, senza nessun aiuto, Scintu penetrò nelle linee nemiche, ritornando alle trincee italiane con cinque prigionieri. Uno di loro aveva tentato di difendersi con una fucilata, ma la sola vista del feroce sardo lo spinse a gettare l’arma, alzare le braccia e balbettare “bo… bo… bo… bono taliano!”. Scintu li portò verso le trincee italiane con la rude risolutezza con cui il pastore spinge le capre verso l’ovile.

Ma la preda non era sufficiente. Il suo maggiore aveva capito che con quegli uomini il nemico era alla sua mercé e decise di organizzare una nuova spedizione. “Se Lei crede mi dia dieci uomini e io Le riporto cinquanta prigionieri. – rispose il sardo – Per la mia vita” concluse con un giuramento d’onore come solo gli italiani di un tempo sapevano fare. Con l’autorizzazione del maggiore, Scintu prese con sé una pattuglia di sette camerati dell’11ª Compagnia. Gli otto dimonios, divisi in due nuclei di quattro (uno d’assalto e uno a copertura) riuscirono nuovamente a infilarsi penetrando nelle trincee nemiche: “Fate come vi dico che torniamo tutti” ordinò granitico. Piombato coi tre compagni fra i nemici esterrefatti, Scintu scatenò l’inferno a colpi di bombe a mano, mentre gli altri quattro li coprivano. Riuscì in breve ad atterrire almeno una cinquantina di nemici, che si fecero trascinare docilmente verso le trincee italiane dai suoi commilitoni. Ma a Scintu non bastava: voleva anche prendere un ufficiale. Si aggirò col moschetto e il pugnale in mano nella trincea nemica finché non scovò un rifugio dove si trovavano cinque ufficiali. Uno di loro riuscì a sparargli a bruciapelo, ferendolo in petto con una revolverata, ma Scintu prima lo colpì a sua volta con una fucilata, quindi lo scannò con la baionetta. Intimata invano la resa agli altri quattro, li sterminò con una granata. Tornò indietro con un polmone bucato e coperto di sangue, ma non tutto suo: “avevo bene vendicato la mia ferita”, raccontò dal letto d’ospedale al corrispondente Alighiero Castelli del quotidiano romano “La Tribuna”, inviato a intervistarlo il 23 settembre 1917.

Due mesi dopo, con Decreto Luogotenenziale del 22 novembre 1917, Scintu venne decorato con la Medaglia d’oro al valor militare a vivente.

Da eroe a tramviere

Promosso aiutante di battaglia dopo una ferita al polmone che lo mise alla prova, Scintu non si piegò e leggenda vuole che fosse scappato dall’ospedale militare per tornare al fronte. L’Italia era infatti alla sua prova più feroce, con gli austroungarici che avevano scommesso il tutto per tutto sul Piave e sul Grappa. Promosso maresciallo aiutante di battaglia, proprio sul Monte Grappa e sul Col Rosso, guidò nuovamente le compagnie d’assalto con un coraggio che ispirava i compagni. Durante la Battaglia del Solstizio del 1918, resistette con il suo reparto contro gli austro-ungarici a Fossalta e Capo d’Argine. Quando cinque mesi dopo fu il turno dell’Italia ad attaccare, Scintu spinse i suoi uomini oltre il Piave nella vittoriosa avanzata di Vittorio Veneto, prima partecipando all’occupazione di Conegliano e quindi raggiungendo il Tagliamento il 3 novembre.

Congedato nel luglio 1919, Scintu si stabilì a Roma, dove lavorò presso l’Azienda Tranvie del Governatorato, l’allora ATAG, fino al pensionamento, nel 1950. Morì il 14 dicembre 1968, lasciando un’eredità di coraggio. Oggi la sua salma riposa nel Sacrario Militare del Verano, mentre il suo nome vive nelle vie di Roma e della natia Guasila, e uno dei traghetti che collegano la Sardegna al continente è stato battezzato Scintu.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul Belfablog della Fondazione Machiavelli il 6 luglio 2025

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