«Nelle miniere di carbone i minatori portano spesso con sè un canarino in gabbia e lo mettono nel pozzo. Se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire: l’aria e velenosa». (Gore Vidal)
di Giorgio Arnaboldi da “la Verità” del 15 novembre 2016
Quante volte Raffaele Fiengo, storico sindacalista del Corriere della Sera (il Mario Capanna di redazione per semplificare), ha creduto a torto o a ragione di sentire quel canto affievolirsi. E di percepire – nel rotolare della testa di un direttore, nello scomparire di una notizia, nell’ingerenza della politica o del marketing o semplicemente di un azionista prepotente – il grisù del potere pervadere l’aria. Montedison, la P2 di Gelli, il socialismo craxiano, il mondo di Berlusconi, i ruggiti della Fiat con la erre francese, gli stilisti che pagano le pagine di moda, persino qualche barca a vela. Il veleno affiorato in grandi o piccole dosi sta tutto dentro il libro Il cuore del potere, pubblicato da Chiarelettere e scritto dall’uomo che, senza coglierne l’esagerazione, si pone come un Davy Crockett sugli spalti del forte Alamo della libertà di stampa che sta in via Solferino a Milano: il Fiengo medesimo.
Il libro, che esce giovedì, è bello e documentato in quel suo essere un viaggio dentro mezzo secolo di storia sindacale del giornalismo, una ricapitolazione di aneddoti conosciuti e ignoti, un altro punto di vista. E in definitiva la prova che negli Anni ‘70 (e anche dopo) la redazione del Corriere della Sera è stata spesso organica con il Partito comunista: assemblee guidate dalla Cgil, pugno chiuso in guanto di cachemire e tavolo riservato al Rigolo. In fondo, specchio di un’Italia del compromesso storico che andava a Messa e poi ai comizi di Berlinguer, la stessa che provocò la fuga di Indro Montanelli e la nascita del Giornale. In quegli anni più o meno formidabili Fiengo ha un ruolo chiave: è il leader del sindacato interno, il Comitato di redazione, e prova a fare da contrappeso al potere politico ed economico che vorrebbe modellare il quotidiano a sua immagine e somiglianza. Il problema è che, per bilanciare la spinta, il Corriere della Sera finisce per diventare ostaggio dell’ «egemonia operaia».
Quando, travolto dallo scandalo P2 (nella lista c’è anche il suo nome), il direttore Franco Di Bella si trova a un passo dalle dimissioni, Fiengo sottolinea un dettaglio non proprio marginale. «Quella mattina, di buonora –prima di andare in via Solferino per l’incontro –, sono passato in via Volturno, alla sede del Pci. Volevo evitare di avere la brutta sorpresa di incomprensioni e ostacoli su un percorso già difficile. Così, piuttosto velocemente, attorno a un tavolo di compagni dirigenti milanesi del partito, ho anticipato la decisione, presa nella notte dai rappresentanti dei giornalisti, di allontanare dal Corriere il giorno stesso il direttore iscritto nella lista di Gelli. Mi è sembrato un passaggio obbligato, per onestà politica e umana, per correttezza insomma, ma anche per chiarezza». Il canarino non canta più, ma lui non se ne accorge perché la sinistra di lotta e di governo è il suo giardino culturale. E perché è umano cogliere l’eccesso di potere nei gesti degli altri e non nei propri. Eppure Raffaele Fiengo è stato potente almeno quanto un segretario nazionale, ha determinato indirizzi, ha affiancato direttori, ne ha gettati a mare altri («la candidatura di Ronchey non ci sembra valida» in un’intervista a Paese Sera). Ha fatto dire a Eugenio Montale, del quale casualmente ereditò la scrivania: «Nella mia stanza è nato un Soviet». Con quel berretto nero stile Lenin al quale Guido Azzolini aveva cucito una stella rossa di stoffa, ha costruito una lunga carriera non tanto sul giornale quanto in assemblea. E in alcuni passaggi chiave del libro lo conferma con invidiabile ingenuità, come quando ammette: «Non sono mai stato iscritto a un partito, ma agli inizi degli Anni ‘70 ho condiviso i valori che emergevano via via dal Pci, comunismo a parte». Sono gli anni del giornalismo militante, magistralmente raccontati da Michele Brambilla nel libro L’eskimo in redazione ( sottotitolo «Quando le Brigate rosse erano sedicenti»). Sono gli anni dell’attentato a Indro Montanelli, quando il Corriere di Piero Ottone – che a Fiengo piaceva parecchio – nella suprema manifestazione di ipocrisia professionale titola: «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza».
Il nome del numero uno dei giornalisti italiani non c’è, bisogna cercarlo nella seconda riga del sommario. Il canarino di Gore Vidal è morto stecchito, ma neppure questa volta Fiengo ne se accorge. La faccenda viene considerata così marginale da non essere degna di finire nel libro. C’è molta preistoria ne Il cuore del potere. Ma ci sono anche imperdibili dettagli che lo rendono originale. Come quando il vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei (siamo sempre negli Anni ‘70) torna dagli Stati Uniti e rivela: «Il responsabile dell’Italian desk del dipartimento di Stato a Washington mi ha raccontato che sette redattori su 15 della sezione Economia sono iscritti al Pci». Due anomalie riferite a giornalisti nella stessa frase: targati e controllati. Altro aneddoto, durante la rivoluzione dei garofani in Portogallo il caposervizio Esteri titola «I comunisti occupano il giornale socialista », consegna la pagina finita e va a casa. I giornalisti comunisti del Corriere decidono di modificare il titolo, senza consultarlo, in «Occupato il quotidiano Repubblica». A parti invertite ci sarebbe stato uno sciopero di una settimana. Sono gli anni del Fiengo rampante, quelli della Società dei redattori, dei tentativi di cogestione. Ma il re dei sindacalisti è tutt’altro che sprovveduto e capisce un punto fondamentale: «La libertà dallo Stato va bene, ma per fare i giornali ci vogliono i miliardi». Soprattutto per reggere certi stipendi, importanti almeno quanto certe amate ideologie.
Quella stagione partorisce comunque qualcosa di utile, lo Statuto dei giornalisti, importante nei decenni successivi per marcare alcuni punti fermi rispetto all’invadenza di marketing e pubblicità. Sta per chiudersi un’epoca, bisogna ammainare le bandiere rosse. La faccenda non è semplice perché ci sono fisicamente, nel senso che i poligrafici (era il 1982) le hanno issate in ogni angolo del palazzo. Scrive Fiengo: «La presenza delle bandiere faceva perdere 10.000 copie al giorno perché il Corriere è un organo di stampa innanzitutto della borghesia produttiva. Il Giorno, che per l’occasione usciva a colori, pubblicava le foto del palazzo storico con le bandiere rosse e aumentava le vendite togliendole facilmente a noi».
Per capire la follia concertativa di quegli anni, Fiengo parla a Leo Valiani, che interpella Luciano Lama, che si mette in contatto con il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Gli operai si convincono. Ma rilanciano sibillini: «Va bene, le bandiere possono essere tolte. Ma non saremo noi a toglierle». L’azienda non si muove per non fare uno sgarbo allo storico sindacato, così ci pensa Fiengo trasformandosi per l’unica volta nella sua vita in un arrampicatore. Passano gli anni, tramontano le ideologie, ma il Bertinotti del Cdr è sempre sul torrione a scrutare l’orizzonte. Si va dagli anni di piombo agli anni di carbonio, dove le guerre si combattono in barca. Accade quando Prada lancia Luna rossa per vincere la Coppa America. Il Corrierone è costretto a coprire l’evento con due pagine al giorno anche quando non si regata per assenza di vento. Motivo, lo spazio pubblicitario della pagina della vela è monopolizzato da Tod’s; così Prada si ritrova ad avere investito un pacco di milioni di euro per dover coabitare con un concorrente. L’ufficio stampa della griffe si agita, bisogna differenziare. E le pagine diventano due. Di fronte a tutto ciò anche Raffaele Fiengo col berretto di Lenin si arrende.
Soldi, soldi e ancora soldi, il resto è negoziabile. Rimpiange l’epoca delle battaglie, il tempo delle ombre rosse; purtroppo contro l’equivoco dei giorni nostri che vorrebbe «comunicazione uguale informazione » neppure lui riesce ad andare. I debiti mordono, Rcs vende anche il palazzo e al re dei sindacalisti non resta che il vizio della memoria.
«Quando nel 1991 vennero smantellate le rotative da via Solferino per sostituirle con quelle di Pessano, ho cercato di far tenere almeno una sezione per le copie destinate a Milano città. Proponevo di lasciarla a vista, in modo che i lettori potessero guardarla mentre stampava. Così il giornale nasce veramente dalle viscere della città». L’idea fu liquidata dall’allora amministratore delegato Giorgio Fattori con una sola parola: «Poesia». E la pronunciò come un insulto.