Nel 1945 lo scrittore fu rinchiuso in una cella senza pareti, esposta alle intemperie. E lì compose i “Canti pisani”
di Alessandro Gnocchi da Il giornale del 28 aprile 2024
Il poeta Ezra Pound amava Dante: la Commedia era calata nella Storia riletta con gli strumenti della teologia, che dava forma al pensiero medievale. Pound voleva essere un novello Dante e dare una Commedia agli Stati Uniti. I tempi erano cambiati. Ogni traccia di Dio sembrava essere scomparsa dall’Occidente che si inginocchiava, da oltre duecento anni, davanti al vitello d’oro della economia. Il poeta dunque doveva farsi «economista». Pound credeva che la moneta e il sistema bancario dovessero conservare lo scopo per cui erano nati: favorire l’impresa, il commercio, lo sviluppo. La direzione auspicata era la giustizia sociale. Ma anche in questo caso i tempi erano cambiati. Le banche avevano preso a creare soldi con i soldi fino ad arrivare agli eccessi della cosiddetta finanza creativa, senza relazione con l’economia reale. Il frutto di questa trasformazione l’abbiamo avuta sotto gli occhi in questi decenni: bolle che scoppiano, banche d’affari che si inabissano nel giro di poche ore, banche centrali indecise se intervenire o lasciar fallire. Salvo scoprire che alcune banche o aziende sono too big to fail, troppo grandi per fallire, e quindi bisogna soccorrerle per evitare conseguenze peggiori.
Secondo Pound, gli Stati Uniti avevano perduto i valori dei Padri fondatori, Thomas Jefferson primo fra tutti. La Seconda guerra mondiale era il risultato dei maneggi delle banche. Gli Stati Uniti avevano investito un sacco di soldi per finanziare la Gran Bretagna. Gli inglesi dunque non potevano perdere. Per questo, secondo Pound illegalmente, il presidente Roosevelt era entrato nel conflitto, rovesciandone le sorti.
Per aver sostenuto queste idee alla radio fascista, Pound venne arrestato nel maggio 1945 e imprigionato come traditore in una gabbia di ferro nel peggior campo di prigionia statunitense, a Pisa. Il poeta è esposto al sole e alla pioggia, senza alcuna privacy, con un secchio per i bisogni. La gabbia è piantonata ma nessuno può parlare con Pound, sottoposto al più duro regime carcerario.
Pound tenta di tenersi in forma. Gli altri prigionieri lo vedono impegnato in immaginari incontri di boxe, una delle passioni dello scrittore. Durante il giorno, cammina lungo il perimetro della gabbia, fino a scavare un piccolo sentiero. Mentre il caldo prova a stordirlo, non meno della notte gelida d’umidità, Pound compone mentalmente 11 poesie che trascriverà una volta ricoverato in infermeria. Nascono così i Canti pisani, il capolavoro nel capolavoro, la sezione più personale e toccante dei Cantos, l’opera che fin dal titolo reclama, come si diceva, l’eredità di Dante Alighieri e prova a unire Vecchio e Nuovo continente.
A questo punto, la sorte crudele di Pound è ancora lontana dal suo epilogo, che coinciderà con la morte stessa (Venezia, 1972). Spedito negli Usa per essere processato, Pound viene dichiarato incapace di subire un processo e inviato alla detenzione in un manicomio criminale statunitense. In teoria dovrebbe restare il tempo necessario per riprendersi e finire davanti al giudice. Invece rimane all’ospedale St. Elizabeths di Washington per tredici infami anni di disperazione. Al suo rilascio, non subirà processo ma non gli verrà restituita la personalità giuridica, motivo per cui sarà confinato nel limbo delle non persone, sottoposto a tutela della moglie Dorothy, impossibilitato a riconoscere la figlia Mary.
Pound non era matto, per niente. Avrebbe voluto difendersi in aula e dimostrare la bontà delle sue convinzioni. Fu il suo avvocato difensore a decidere la strategia «psichiatrica». Non si considerava un traditore antiamericano. Al contrario si vedeva come un patriota, jeffersoniano (e confuciano). Non aderì mai al fascismo, anche se vide, a torto o a ragione, nel fascismo qualcosa di simile alle proprie convinzioni. Nel 1949 succede un fatto «strano»: Pound vince il prestigioso Premio Bollingen grazie ai Canti pisani che, in teoria, dovrebbero essere le farneticazioni di un pazzo. E invece…
Un prezioso libro di Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa. Un poeta in prigione (Ares, pagg. 152, euro 15) permette di ripercorrere cattura e prigionia del poeta, il nodo più importante della biografia, intorno al quale circolano leggende metropolitane e imprecisioni varie. Con stile chiarissimo, dovuto a una assoluta padronanza dell’argomento, Gallesi, tra i massimi studiosi di Pound in Italia, ci illustra una delle storie più incredibili e quindi significative del capitolo della Seconda guerra mondiale noto come «collaborazionismo». Gallesi fa capire benissimo che è sciocco e in malafede separare, come spesso si è fatto, il poeta dall’economista, l’artista dal politico. Non è proprio possibile: le idee di Pound sono al cuore della sua poesia. Sarebbe come levare la teologia a Dante. Inoltre, il saggio contiene uno stringato ma affascinante invito alla lettura degli undici Canti pisani.
Colpevole di niente se non delle proprie opinioni, Pound, che nel 1945 era già Pound, ovvero un peso massimo della letteratura mondiale, fu sepolto vivo, da sano, in manicomio, dove rischiò di impazzire. Questo destino interroga il lettore.
Rinchiudere un «pazzo» fa sempre comodo: lo si scredita e si evita di affrontarne le ragioni nel corso di un pubblico processo. Una cosa è certa: la poesia è più forte di tutto. Pound è tra noi. I nomi di chi provò a toglierli la dignità, invece, non interessano a nessuno.