Dalla fine del 1941 – gli Stati Uniti entrarono in guerra nel dicembre di quell’anno dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour – fino alla fine della Seconda guerra mondiale, nell’estate 1945, oltre 500 mila soldati statunitensi sostarono o transitarono sul suolo australiano. Tra essi, ovviamente, anche molte migliaia di soldati di colore, ai quali però le autorità australiane non riservarono un’accoglienza calorosa. Il primo ministro dell’epoca, John Curtin, disse chiaramente di non voler soldati di colore sul suo territorio: la loro presenza massiccia rischiava di compromettere la politica australiana che dal 1901 puntava al contrasto di ogni infiltrazione di razze non bianche. Dopo lunghi negoziati, Washington ottenne anche per i suoi soldati non bianchi il permesso di sbarco in territorio australiano ma non l’esenzione dalla politica di segregazione razziale vigente. Tuttavia non mancarono episodi di simpatia da parte della popolazione locale: episodi che finirono col peggiorare le cose perché a risentirsi di questo furono i soldati “bianchi” che vennero alle mani sovente coi loro commilitoni segregati in accampamenti separati. Uno stato di cose che era ben noto anche negli Stati Uniti dove, non a caso, il problema della segregazione razziale esplose tra gli anni Cinquanta e Sessanta.