Ecco l’editoriale del nuovo numero di “Storia in Rete”. Ci sono gli estremi per sospettare che il sempre più drammatico disinteresse delle nostre classi dirigenti verso la nostra Storia e la nostra cultura siano da mettere in relazione con l’europeismo dilagante? Prima saremo meno italiani (e meno spagnoli, meno greci, meno francesi…) prima saremo buoni e disciplinati Europei. Senz’anima. O, almeno, senza più la “nostra” anima…
La parola è un po’ sputtanata ma allo stato delle cose tanto vale non farsi problemi e chiamare le cose col proprio nome: “Complotto”. Ecco, l’abbiamo detto. Detto perché lo pensiamo: c’è un “Complotto”. Un “complotto” nel senso più classico che poi è quello più lontano dal cliché tanto caro ai “complottisti” così come agli anti complottisti (o “debunkers” come amano farsi chiamare oggi, anche in Italia, dove sempre più si preferisce non usare l’italiano anche quando si parla tra italiani e agli italiani…). Insomma, il complotto c’è, è in atto e sta raggiungendo i suoi scopi nonostante il “piano” non sia stato – probabilmente – preordinato esattamente in qualche club esclusivo o in una grotta sede di un gruppo di incappucciati. Quale che sia stata la sua origine questa si perde comunque ormai molto indietro nel tempo: almeno 30/40 anni a giudicare da alcuni elementi probanti… Certo, poiché ci occupiamo di Storia non possiamo trascurare a priori la ricerca delle origini di un fatto, dei suoi prodromi, magari dei suoi ispiratori. Ma sono tali e tanti i segni del suo dispiegarsi in ogni aspetto della vita di ogni giorno che, almeno per denunciarlo, non occorrono laboriose indagini d’archivio. Basta guardarsi intorno, leggere i giornali, ascoltare in TV politici e intellettuali, passeggiare per le nostre città, interrogare o semplicemente osservare le persone che ci camminano a fianco sul marciapiede o che sono ferme al semaforo. Guardare, collegare molti dati e chiedersi: “perché?”.
Perché a nessun politico o burocrate di Stato sembra importare davvero del nostro patrimonio storico, artistico e culturale? Perché non ci sono più “mecenati” nel mondo dell’imprenditoria privata? Perché le uniche manifestazioni culturali che raccolgono briciole di attenzione da parte delle amministrazioni locali sono anche quelle più “inoffensive”: mostre di fotografia, teatro sperimentale, “laboratori” di questo e quello, “reading” di poesia, concerti di musica jazz oppure sagre di castagne, pecorino o salsicce? Perché nessuno si indigna per il fatto che il direttore di un grande museo, in Italia, guadagna come un commesso della Camera o del Senato? Perché nessun sindaco sembra avere a cuore il decoro della propria città, dei propri centri storici? Perché se vado al Louvre a Parigi o alla National Gallery a Londra non trovo i venditori ambulanti, i carri-bar, i questuanti e gli sbandati che infestano tutte le nostre più belle realtà storico-artistiche? Perché il decoro di città e paesi storicamente e turisticamente senza pari al mondo deve valere meno dei presunti diritti delle varie corti dei miracoli che li occupano e profanano? Perché abbiamo gente al governo che dovrebbe sapere, statisticamente, che ogni euro investito in eventi culturali ha un ritorno sul territorio interessato di circa 3,5 euro eppure negli ultimi anni hanno proceduto a tagli consistenti delle spese per la Cultura (dal 2010, ad esempio, i Comuni hanno dovuto tagliare dell’80% le spese per le mostre d’arte)? Perché con i magazzini dei nostri musei pieni di opere d’arte prive di posto e collocazione se si deve pensare ad un nuovo museo si fa un bel museo di arte contemporanea? Perché con tutti i canali di TV che ci sono solo due si occupano (a chiacchiere) specificatamente di storia e di fatto non lo fanno perché “History Channel” è un canale di cultura pop senz’anima e “RAI Storia” un esempio di nozze con i fichi secchi tra archivio RAI e storia italiana (che nasce ben prima della metà degli anni Cinquanta…)? Perché la RAI dopo anni di fiction storiche fatte con i piedi ha deciso di non farne più invece di cominciare a farne di migliori (anche per venderle all’estero e fare così un minimo di “imperialismo culturale”) sulla falsa riga di grandi serial di successo (anche in Italia) come “Pilastri della Terra”, “Mondo senza fine”, “Downton Abbey”, “Mad Men” o anche, a livelli più pop ma televisivamente più che dignitosi (oltre che remunerativi), serie come “I Borgia” o “I Tudor”?
Perché la maggiore superpotenza culturale del Pianeta (che sarebbe l’Italia…) è sostanzialmente assente, come produttrice, dal mercato dei documentari di storia e culturali nonostante si tratti di un mercato di alcune centinaia di milioni di euro l’anno? Perché compriamo invece documentari inglesi o americani che riducono la nostra storia a macchietta, anche tragica (per esempio i Medici come “i mafiosi del Rinascimento”)? Perché si è permesso che ogni anno 190 km quadrati del nostro straordinario paesaggio sia trasformato in aree edificabili e capannoni anziché riciclare le aree già costruite e spesso abbandonate? Perché da anni ci dicono che siamo sempre di meno eppure si continua a costruire case architettonicamente orrende? Perché anche chi dice di voler difendere il nostro patrimonio artistico come il FAI, tende a privilegiare i luoghi e la loro conservazione (cosa giusta e meritoria) sganciandoli però dal contesto storico-culturale che quelle eccellenze ha prodotto? Non è anche questo un modo di riprodurre quel cliché che fin dai tempi del Gran Tour settecentesco portava i nobili stranieri a vedere e ammirare l’Italia e a disprezzare gli italiani, quasi che tutto quello che ha fatto unica l’Italia sia stato prodotto da qualcuno che con gli autoctoni non ha nulla a che vedere (insomma: gli italiani sarebbero un incidente di percorso…)? Perché la Storia e la Storia dell’Arte sono le cenerentole delle materie scolastiche? E come è stato possibile che parallelamente (i dati sono del 2010, quindi potenzialmente peggiorati nel frattempo) l’uso di parole inglesi nei testi italiani è aumentato in soli otto anni (dal 2001 al 2009) di ben il 773% (avete letto bene: 773%)? Sarà un caso che questa esplosione di “itanglese” sia nata con l’avvento dell’euro, il cui arrivo ha accompagnato anche l’acuirsi di tutte le disfunzioni che abbiamo accennato? Ci sarà una relazione tra tutto questo e altre circostanze? Ad esempio col fatto che già tra gli anni Ottanta e Novanta grosse fette di moda e industria agro-alimentare (due pilastri del “Made in Italy”) sono state cedute – e a volte svendute… – a mani straniere? Che l’avvento dell’Euro ha coinciso, in dieci anni, con un incremento di immigrati in Italia pari al 300%…? Oppure che, negli stessi anni il divario tra ricchi e poveri è aumentato in termini impensabili nel Novecento, una realtà che umilia particolarmente i giovani disoccupati o sottoccupati e gli anziani pensionati? O, infine, come resistere alla tentazione di immaginare un nesso tra tutto questo e la crescente fuga di cervelli dall’Italia? Che futuro ha un paese che “importa” raccoglitori di pomodori, profughi e badanti ed esporta tecnici, laureati e ricercatori la cui formazione è costata allo Stato centinaia di migliaia di euro e che ora lavorano per aziende e università di tutto il mondo tranne che per quelle italiane?
E visto che ormai abbiamo preso la china delle domande maliziose, del “complottismo” senza remore e freni, chiediamoci se sia possibile mettere quanto sopra in relazione con una serie di eventi e dichiarazioni. Ad esempio a quella legge che dal 2005 prevede solo un ammenda di 10 mila euro per chi vilipende, distrugge o imbratta la bandiera tricolore. Prima, almeno in teoria, c’era il carcere… Ridurre le pene per chi manca di rispetto alla bandiera (cosa che dovrebbe valere per tutte le bandiere, ovviamente…) non sarà mica un effetto della nuova religione del Terzo Millennio: quella dell’Europa, qualche che sia la formula? Quell’Europa che per celebrare l’incredibile Nobel per la pace (d’altronde negli ultimi anni abbiamo bombardato solo afghani, iracheni, somali, serbi, libici…) ha fatto un video dove l’Italia – paese fondatore anche perché l’Europa nasce col Trattato di Roma… – sostanzialmente non c’era? E questo avrà un nesso con i vari tentativi di esclusione (già nel 2007 e nel 2010) dell’italiano dai concorsi dell’Unione Europea? Ma ci si può fidare di “Questa Europa”? Nel giugno 2012 Marcello Foa ricordava su “Style”, supplemento de “Il Giornale”, che due giornalisti francesi – Christophe Deloire e Christophe Dubois – hanno scritto un libro molto interessante e scomodo: “Circus Politicus” che, dice Foa, «…dimostra come l’Unione Europea, nei suoi sinedri più importanti (Commissione e Consigli dei ministri e dei Capi di governo), non solo non sia trasparente, ma adotti logiche e procedure che sono tipiche delle società segrete, incompatibili con i procedimenti e le consuetudini di istituzioni che dovrebbero essere democratiche». E ancora, scrive Foa: «Scopriamo, ad esempio, che quasi tutte le decisioni sono prese prima delle riunioni ufficiali, seguendo procedure opache e sotto l’influenza di lobby e di organizzazioni come la Trilaterale e il Bilderberg, che da tempo piazzano i propri esponenti o persone a loro gradite nei posti chiave nella UE e talvolta anche fuori, vedi l’attuale presidente europeo Van Rompuy, vedi Romano Prodi quando fu scelto a sorpresa per guidare la Commissione europea, vedi l’attuale premier italiano Mario Monti».
Allarghiamo ancora un po’ il panorama d’indagine senza paura di perdere il filo del discorso. I Complotti (che non sono mica solo le congiure di Palazzo…) sono fenomeni complessi, articolati, sfaccettati. E’ ancora Foa a segnalare che il libro dei due giornalisti francesi «…svela l’enorme condizionamento di organizzazioni internazionali come l’OMC, la BRI, lo IASB che non rispondono a nessuno ma regolamentano commerci, scambi, la finanza internazionale e che beneficiano di un’immunità assoluta». Un passo che aiuta a ridare vita ad un ritaglio di giornale che da anni se ne stava, tranquillo, tra i tanti che ogni giorno si mostrano degni di essere selezionati e messi da parte in attesa del momento giusto. Un “vizio” che rasenta la patologia ma che ogni tanto offre piccole soddisfazioni come questa. Sul “Corriere della Sera” del primo maggio dell’ormai lontanissimo anno Duemila, la giornalista Maria Teresa Cometto si occupava di un libro scritto da un economista che da allora non ha smesso di tuonare contro l’Euro: l’ex ministro Paolo Savona. Con i limiti di qualsiasi articolo di giornale, il “pezzo” della Cometto rivelava comunque alcun sprazzi illuminanti oggi, quasi profetici ieri: «…la globalizzazione dei mercati ha di fatto imposto la foreign dominance, cioè il dominio delle forze internazionali sulla sovranità monetaria ai singoli Paesi; ed è quindi sul rapporto fra l’indipendenza delle democrazie nazionali e la foreign dominance che andrebbero concentrati gli sforzi di comprensione delle autorità in tutto il mondo. A proporre questa tesi è l’economista Paolo Savona nel suo ultimo libro “Alla ricerca della sovranità monetaria. Breve storia della finanza straniera in Italia” (2000 Milano, Libri Scheiwiller, 230 pagine, lire 22 mila). Dove l’elaborazione teorica è felicemente accompagnata dal racconto avvincente delle vicissitudini della lira italiana dalla sua nascita, nel 1862, a oggi, cioè alla vigilia della sua uscita di scena a favore dell’euro. La storia raccontata da Savona mette in luce come, in questi 139 anni di vita, la lira e la politica monetaria italiana siano state pesantemente influenzate dagli interventi della finanza estera, sia dei privati sia delle autorità di altri Paesi: Francia e Germania dall’unità d’Italia all’inizio del ‘900, l’Inghilterra dagli anni Venti e gli Stati Uniti dal 1945 in poi. Solo in una breve parentesi a cavallo degli anni Sessanta, sottolinea Savona, i governanti monetari italiani sono riusciti a raggiungere l’obiettivo della sovranità monetaria e il massimo punto di foreign independence nella nostra storia. “Il ciclo storico della lira – conclude Savona – si chiude quindi senza che il sogno di Cavour si realizzi, ossia senza raggiungere l’indipendenza politica piena che richiede il passaggio della creazione monetaria sotto controllo nazionale. A questo sogno se n’è sovrapposto un altro non meno importante, comunemente attribuito ad Alcide De Gasperi e a Ugo La Malfa, ma condiviso da una generazione di europeisti: quello di propiziare l’unità politica del Vecchio Continente per garantire condizioni permanenti di pace e prosperità”. Anche questo sogno, però, non è realizzato e al suo posto è stata praticata l’unificazione monetaria. Ma il punto su cui Savona vuole richiamare l’attenzione è che gli 11 Paesi dell’Euro e la Banca centrale europea non possono esercitare una piena sovranità monetaria, “dato che il mercato globale e il dominio del dollaro causano una foreign dependence della creazione di euro e delle scelte politiche dell’Unione Europea”. L’euro è debole, perché gli Undici e la BCE non si sono posti il problema della foreign dominance e lasciano la moneta unica sottoposta al ricatto dei mercati, dove il ruolo crescente dei contratti derivati e i cambi flessibili danno periodicamente luogo a disordini monetari, che non hanno stretti legami con i fondamentali dell’economia…».
Savona scriveva il suo libro prima dell’avvento ufficiale dell’Euro e in questi anni ha trovato solo conferme alle sue riserve di allora. E lungo la strada ha trovato molti e autorevoli compagni di strada che la propaganda imperante liquida come “populisti” e inquadra nell’“antipolitica”. Tra questo un altro ex ministro delle Finanze e affermato giurista come l’ormai anziano ma ancora attivissimo Giuseppe Guarino. Ma, si potrà obbiettare, cosa c’entra l’Euro con il “complotto” che stiamo denunciando? C’entra perché il genocidio culturale e intellettuale che si sta perpetrando è parte di un più ampio processo che ha, in gran parte della classe politica europea e in specie quella italiana, una complice ottusa e tenace. Di buono hanno solo il fatto che non si nascondono: per individuarli e contarli basta fare attenzione a tutti quelli che non perdono occasione per definirsi “europeisti”, che si fanno riprendere (anche se sono sindaci o consiglieri provinciali) con una bella bandiera europea alle spalle (che spesso sovrasta quella italiana o la copre del tutto); che condannano i “populismi” e i “nazionalismi” dandone un’interpretazione tanto rozza quanto estensiva per poterci includere tutte le realtà che difendono le radici culturali e gli interessi di una terra o di un popolo oppure di una categoria sociale (operai, pensionati, commercianti, genitori, studenti…); che insistono a indicare la necessità per l’Italia di uniformarsi agli standard europei in ogni settore e che praticano in tutti i modi possibili il “politicamente corretto”, lo strumento perfetto per il delitto strisciante che si sta consumando.
La classe politica che sta gestendo la liquidazione di una eredità millenaria è quella che è, comprese le sue presunte vette. La tanto celebrata e discussa “Agenda Monti” (e Mario Monti è uno legato mani e piedi ai poteri forti europei e d’oltreoceano), a proposito della cultura prospetta per l’Italia quanto segue: fare intese con fondazioni non bancarie o realizzare forme di partnership pubblico-privato per consentire l’allargamento di iniziative finanziabili; investire sul turismo culturale, paesaggistico, enogastronomico; puntare al turismo russo, cinese, indiano, brasiliano e del Golfo e arrivare all’attuazione di un Piano Strategico per il turismo. Insomma, secondo Monti e i “centristi” la Cultura va intesa solo come volano turistico-economico (e già comunque siamo un bel passo avanti) e non come elemento base per cementare una comunità nazionale messa duramente alla prova da una crisi e da sconvolgimenti sociali senza precedenti. Solo una comunità solida e consapevole di sé può affrontare con la necessaria tenacia le prove imposte periodicamente dalla Storia: forse è per questo che si cerca di non renderla consapevole e solida? E poi, in campagna elettorale, qualcuno chiederà a Monti o ai suoi sostenitori come sia possibile puntare al turismo culturale senza preoccuparsi della tutela non solo dei beni artistici, architettonici e archeologici ma anche del contesto in cui questi sono? In altre parole, chi penserà al nostro paesaggio? I politici di destra? Quelli di sinistra? Forse quelli di centro? Nessuno?
Il problema è quindi soprattutto quella della nostra classe politica sulla quale ha speso parole illuminanti e definitive uno dei più lucidi analisti della nostra disastrata realtà nazionale: Ernesto Galli della Loggia. Il 16 ottobre scorso, sulle colonne del “Corriere della Sera”, Galli della Loggia ha pubblicato un fondo dal titolo “La vista corta della politica – Una spenta idea del nostro paese”: «La politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti – come del resto in tanta parte del Paese – si è spenta ogni idea d’Italia e della sua storia; di che cosa sia l’Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell’industriosità italiana siano acquisiti dall’estero; consentire che il sistema d’istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d’accatto. Dobbiamo ricominciare dall’Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l’Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L’unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il PIL o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un’idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa. Se vuole avere un futuro, l’Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L’alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino».
Se questa è la classe dirigente italiana (che non si esaurisce solo in quella politica perché ci sono anche i burocrati, gli imprenditori, gli intellettuali, i giornalisti, i docenti universitari, gli insegnanti di scuola…) gli orizzonti si fanno cupi perché, oltralpe (incluse le propaggini in Italia) le idee sono chiare e non da oggi. Il 24 ottobre 2012, la stampa riportava per lo più senza scandalo (cretini, distratti o complici?) le dichiarazioni del Presidente (non eletto ma nominato) del Consiglio europeo, l’olandese Herman Van Rompuy. Su “Il Giornale”, Rodolfo Parietti mostra invece di aver ben capito cosa intendesse dire Van Rompuy: «Nei prossimi mesi “andremo a toccare il tabu della sovranità”. Seppur le sfumature lessicali abbiano un peso, il verbo “toccare” pronunciato ieri da Herman Van Rompuy va inteso in un sol senso: la sovranità nazionale va abbattuta, a vantaggio di un sistema comunitario sempre più integrato. Anche a rischio di incassare l’accusa di un’eccessiva ingerenza. Un vero e proprio assist, quello del presidente del Consiglio UE, ad Angela Merkel, che nel recente vertice di Bruxelles aveva cercato – senza successo a causa della ferma opposizione di Francia e Italia – di far passare la proposta di un super-commissario con possibilità di porre un veto sui bilanci degli Stati membri. Par insomma di capire dalle parole di Van Rompuy che non è soltanto la Cancelliera a remare in direzione di uno svuotamento dei poteri dei singoli governi. Cosa già peraltro avvenuta con il commissariamento della Grecia (e prima ancora di Irlanda e Portogallo) e con la politica di austerity imposta alle nazioni poco virtuose, Italia compresa».
Il piano sovranazionale è ormai palese nella sua strategia anche se non possono sempre essere evidenti le sue ricadute a breve e medio periodo. Come nel caso della sfascio culturale italiano che pure c’è e si aggrava parallelamente alla crisi economica e alle conseguenti ulteriori perdite di sovranità nazionale. E che tutto, se non preparato, sia stato ispirato e auspicato lucidamente molto tempo fa lo confermano un paio di citazioni. Arthur Schlesinger jr. su “Foreign Affairs” nell’estate 1975 scriveva: «Non otterremo il Nuovo Ordine Mondiale senza pagare un prezzo col sangue, oltre che con il denaro e le parole». E ancora più indietro, l’11 settembre 1954 George Brock Chisholm, già direttore della Organizzazione di Sanità dell’ONU dal 1948 al 1953, così si era espresso: «Per ottenere il governo mondiale, è necessario togliere dalle menti degli uomini il loro individualismo, la lealtà alle tradizioni familiari, al patriottismo nazionale, ai dogmi religiosi».
Ora, per bloccare o solo ostacolare, un progetto sovranazionale così chiaro, così potente e così radicale ci vuole ben altro che qualche pagina di un mensile. Che facciano pure ma non sperino che nessuno se ne sia accorto… E non cerchino di spacciarci per progresso l’incubo che stanno preparando e nel quale stiamo già muovendo i primi, decisi e fatali passi.