La strage di Charleston sembrava l’ennesimo delitto legato all’eccessiva circolazione delle armi, con annesso dibattito politico, e invece è diventata una questione di bandiere. O meglio, di una sola bandiera, quella confederata. Le foto di Dylann Roof con la bandiera incriminata (senza contare quella della Rhodesia e del Sudafrica dell’apartheid) hanno fatto scattare una campagna mediatica senza pari per rimuovere la bandiera dagli uffici pubblici. L’hashtag di Twitter #takedowntheflag ha avuto il suo primo successo nel velocizzare la rimozione della bandiera confederata da Columbia, capitale del South Carolina. Ma perché questa bandiera è così importante? Usciamo un attimo dallo scontro mediatico di questi giorni, e lasciamo alle loro zuffe i detrattori (molti) e i difensori (ormai pochissimi).
di Matteo Muzio da Linkiesta del 26 giugno 2015
Non stiamo parlando della bandiera confederata vera e propria, intanto. La bandiera confederata vera e propria, la cosiddetta “Stars and bars” , venne approvata dal Congresso confederato il 4 marzo 1861, ma non riscosse molto successo, tanto che nel 1863 già venne rimpiazzata da una bandiera bianca con integrata quella che allora era la bandiera dell’armata della Virginia del Nord, guidata dal generale Lee: una croce di Sant’Andrea blu in campo rosso, con le stelline a rappresentare i singoli stati confederati. Questa bandiera avrebbe avuto più successo di tutte le altre numerose bandiere usate sotto la Confederazione, inclusa la “Bonnie Blue flag”, usata durante la battaglia di Fort Sumter, quella che diede inizio alla guerra.
La bandiera acquisì popolarità per le vittorie dei primi anni, contro l’esercito del Nord, molto più forte, superiore nei numeri e con alle spalle una capacità industriale nettamente superiore rispetto alla Confederazione, dov’era quasi assente. Però non venne mai adottata durante l’esistenza della Confederazione. Venne riutilizzata solo negli stati del Sud, durante le riunioni dei veterani della guerra, diventando simbolo di un nostalgico passato gentilmente aristocratico e armonioso, dove le classi sociali convivevano pacificamente, costruendo il mito della “Lost cause”.
Il definitivo sdoganamento però avvenne soltanto con le elezioni presidenziali del 1948: alcuni democratici provenienti da alcuni stati del Sud abbandonarono il partito, ritenuto ormai troppo sbilanciato a sinistra, per fondare lo “States’ Rights Democratic Party”. Per l’occasione, venne rispolverata dall’armadio dei nonni la Dixie Flag, che reincontrò un nuovo momento di popolarità negli anni ’50-’60, tra i governatori degli stati che combattevano l’integrazione razziale come l’Alabama di George Wallace e l’Arkansas di Orval Faubus. Principalmente per questo, la comunità afroamericana li vede come simboli di oppressione.
Già, perché la Confederazione, pur nascendo come paese che inserisce nella sua costituzione la “protezione della schiavitù” ed ha il suo consenso maggiore nella classe dei piantatori (nel 1860, negli stati del Sud, solo 46mila persone possedevano almeno venti schiavi, tali da potersi definire piantatori), non era razzista in senso stretto, tanto che consentiva ai neri liberi e ad alcune tribù di nativi americani di possedere schiavi a loro volta, come nel caso di Antoine Dubuclet, afroamericano e proprietario di una piantagione di canna da zucchero con 70 schiavi, nel dopoguerra sostenitore del partito repubblicano. Certamente si affermava che i neri fossero inferiori ai bianchi e che le due razze non si dovessero mescolare. Ma questo lo affermava anche Abraham Lincoln, nei famosi dibattiti con il senatore Stephen Douglas nel 1858. E nessuno si era spinto tanto in là da affermare la necessità dei matrimoni misti, neanche il deputato repubblicano radicale Thaddeus Stephens.
Altra cosa: non regge il paragone tra Confederazione e regime nazista fatto dal Washington Post. La Confederazione non era un totalitarismo, era una forma reazionaria di democrazia, con un suffragio ristretto ai soli maschi bianchi (come del resto lo erano gli Stati Uniti). Ma a differenza degli Usa, nella Confederazione la condizione servile di un’intera razza era considerata come un bene supremo proprio perché favoriva un dibattito sereno, senza le incombenze del lavoro manuale, a una classe sociale di proprietari. Come diceva il senatore del South Carolina John Calhoun, ideologo della schiavitù e della libertà di secessione degli stati, quando il suffragio si allargava, poi arrivavano i Cesari e i Napoleoni. Poi, anche politicamente, gli Stati Confederati non erano affatto un monolite.
Le varie convenzioni costituzionali degli stati schiavisti, tenutesi dopo l’elezione di Abraham Lincoln, non andarono come previsto: Kentucky e Missouri votarono per rimanere nell’Unione. Il capofila degli unionisti della Georgia, Alexander Stephens, diventò vicepresidente. Il governatore del Texas, Sam Houston, arcinemico dei secessionisti, venne scacciato. E anche durante la guerra, le elezioni rimasero libere, così come la stampa. Nel 1862 infatti venne eletto governatore del North Carolina Zebulon Baird Vance, nemico della coscrizione obbligatoria e oppositore del governo di Richmond.
Infine, il segretario di stato era Judah P. Benjamin, primo ebreo a occupare una posizione ministeriale oltreoceano, per Washington si sarebbe dovuto aspettare il 1906, con la nomina di Oscar Straus a segretario del commercio. Un ulteriore appunto: il sindaco di New Orleans Moon Landrieu ha ritenuto di doversi scusare per il ruolo avuto dalla sua città nel commercio degli schiavi. Lo stesso dovrebbe fare Bill De Blasio dato che New York durante la guerra sosteneva la confederazione ed era il quartier generale dei democratici favorevoli a una pace immediata con il Sud, con cui il suo porto intratteneva ottimi rapporti commerciali. Le bandiere possono incarnare un passato doloroso e certamente deplorevole, ma non possono diventare il capro espiatorio di ogni male.