Quella della rivalutazione delle tragedie della Frontiera Orientale è stato uno dei cavalli di battaglia dei missini, prima, di Alleanza Nazionale poi. L’approvazione della legge 92\2004 – con l’istituzione del Giorno del Ricordo ogni 10 febbraio – è stato dunque considerato come il coronamento di una battaglia durata quasi sessant’anni, che doveva rendere giustizia ai trecentomila giuliano dalmati fuggiti dalle loro terre e alle migliaia e migliaia di infoibati, liquidati, fucilati o altrimenti fatti sparire dai partigiani comunisti e poi dal regime di Tito. Una battaglia che però aveva anche il sapore di una rivincita – almeno per una parte di coloro che la propugnavano – contro la narrazione resistenzialista dominante.
La quale, peraltro, non nascondeva affatto la sua coscienza sporca in materia. Chi scrive ricorda perfettamente il muro-contro-muro con un professore al quarto anno di liceo (1994), il quale non voleva che sul giornalino scolastico – di cui ero caporedattore – uscisse un articolo sulle foibe, perché “denigrava i gloriosi partigiani iugoslavi” (in realtà gli bruciava che nel pezzo avevo fatto notare che Belgrado venne liberata dall’Armata Rossa e non dall’EPLJ).
Ma con l’apertura del breve, ma glorioso “decennio del revisionismo”, fra 1994 e l’infausta uscita finiana del “male assoluto”, anche le vicende della Venezia Giulia erano destinate a tornare un argomento di pubblico dominio, in Italia, rientrando dalla porta della storia dopo essere state nascoste per decenni sotto al tappeto. L’approvazione della legge 92\2004 rappresenta dunque il coronamento di un’operazione innanzitutto di verità, ma anche di pacificazione – poiché gran parte degli esuli e dei loro discendenti, ottenuta giustizia storica, non cercavano affatto vendetta ideologica. E il canto del cigno di quel decennio.
Al quale è seguito un pesante contrattacco da parte delle forze negazioniste – prima – e ignorazioniste, poi. A tutta prima l’abitudine veterocomunista alla negazione fu la strategia principale. Alla quale, dopo i risultati invero deludenti contro la mole di lavori e di documenti pubblicati, seguì la stagione dell’ignorazionismo, il cui leitmotiv divenne costruire una nuova “narrazione” che pur non negando più foibe ed esodo, ne addossasse la colpa al Fascismo e un po’ a tutti gli italiani. Una strategia che si inseriva nel solco dell’ideologia woke e de-colonialista, di colpevolizzazione del passato storico d’ogni nazione bianca.
Di fronte a questa ondata di melma pseudo-storica, si è sentita la mancanza di testi organici, che andassero oltre la memorialistica, si basassero su documenti e analisi storicamente corrette e non ideologicamente orientate. Infine, che non ignorassero dati e fatti a scopo di puntellamento del teorema, della narrazione, come fanno invece gli ignorazionisti con il loro orwelliano slogan “noi ricordiamo tutto”.
In questo solco si inserisce il puntuale volume firmato a due mani da Giovanni Stelli e Marino Micich, storici e anime rispettivamente della Società di Studi Fiumani e del Museo storico di Fiume. Un testo che risulta prezioso e utile perché unisce all’agilità una puntualità scientifica – con note e una corposa bibliografia – e descrive una storia dell’intera regione adriatica orientale partendo non da “date simbolo” della contemporaneità – un po’ il vizio di tante delle narrazioni giustificazioniste, negazioniste o riduzioniste, più interessate a una lettura ideologica che storica – ma dal Medioevo.
Il volume poi dà finalmente dati e cifre, e per questo è fondamentale per i tanti che vogliono ricordare e celebrare ma che ancora s’appoggiano più alla propaganda e al sentito dire che alle statistiche, offrendo però così il fianco alle facili polemiche della narrazione ignorazionista, che non cerca altro per spingere il pubblico a guardare il dito anziché la Luna.
Chiude il saggio un bilancio del Giorno del Ricordo, proiettandolo in una prospettiva di chiusura di un contenzioso storico con gli Stati successori della Jugoslavia ma anche con le coscienze degli italiani, di chi ha tanto combattuto per quella memoria, spesso con un ardore nobile ma controproducente e di chi invece ancora considera quel 10 febbraio come un’offesa personale al proprio retaggio. Sono tanti i mea culpa che gli italiani devono fare, chi più – come gli eredi del Comunismo – chi meno – come chi ha dimenticato per ignavia o ha celebrato con revanscismo fuori dal tempo. E questo libro aiuta tutti, perché rinunciando all’acredine e tendendo una mano si possono ricucire anche ferite odiose.