La verità è che abbiamo la memoria corta. O forse non l’abbiamo più. Altrimenti non ci saremmo stupiti e, con molta ipocrisia, indignati, apprendendo, nella concitazione della grande fuga dall’Afghanistan, che i talebani vincitori, nell’attesa che gli ultimi rappresentanti delle potenze occidentali togliessero il disturbo, avevano dato inizio alla resa dei conti con quella parte della popolazione che aveva creduto alla promessa di una modernizzazione del Paese.
Le loro liste di proscrizione (che non prevedono l’esilio, ma la morte) erano pronte da tempo e hanno già cominciato a produrre i loro effetti nelle aree lontane dagli obbiettivi dei media occidentali. A Kabul e nei dintorni dell’aeroporto, dove si consuma il dramma di quella parte della popolazione che ha avuto il torto di credere alle promesse delle democrazie occidentali, esponendosi alle rappresaglie del dopoguerra, si sono avuti solo alcuni esempi del programma sanguinario dei cosiddetti studenti coranici. Ma dalle province lontane riescono solo a giungere affievolite alcune delle tante grida di dolore che risuonano in quel Paese.
Ma perché ho esordito parlando di memoria corta e di indignazione ipocrita? Perché tutto quello che sta succedendo agli afghani che hanno collaborato con gli occidentali (e ai loro parenti) e non hanno avuto la fortuna di riuscire a raggiungere in tempo l’aeroporto di Kabul, era assolutamente scontato e prevedibile. Per due motivi. Anzitutto perché la storia dei talebani è una storia sanguinaria fin dalla loro origine recente, ma anche dalle loro radici remote. Il giovane Churchill, nel libro scritto dopo la sua partecipazione a una campagna nell’Afghanistan, a fine 800, scriveva che i talib, la tribù da cui prendono il nome i moderni talebani, erano “una razza più degradata di qualsiasi altra, ai limiti dell’umanità; feroci come le tigri, ma meno puliti; altrettanto pericolosi, ma non così aggraziati”. Il secondo motivo per cui quello che sta succedendo e continuerà nei prossimi giorni era prevedibile, è che tutto questo è iscritto a caratteri rosso sangue nel DNA delle guerre civili, un tipo di conflitto che l’Italia ha vissuto sulla sua pelle, anche se negli anni successivi ha preferito rimuovere dalla sua memoria ‘storica’ le pagine più crudeli e inutili.
La lista delle uccisioni compiute in Italia da parte di settori della Resistenza non durante la guerra civile, ma dopo il 25 aprile del 1945 è lunghissima e, nonostante pubblicazioni dettagliate che risalgono ad anni lontani (Pisanò), riprese e integrate di recente (Pansa ecc.), ancora molti tasselli mancano al quadro generale. Le valutazioni non definitive parlano di alcune migliaia di esecuzioni nel centronord che continuarono almeno fino alle elezioni dell’aprile del 1948. Non solo fascisti, ma anche i loro parenti, e poi borghesi, imprenditori, sacerdoti e quanti venivano giudicati potenziali nemici politici di una possibile rivoluzione socialcomunista.
In quella pulizia politico-sociale si distinsero in particolare le formazioni di Giustizia e Libertà e quelle comuniste. Un esponente di Giustizia e Libertà come Giorgio Agosti dichiarava di sentire “un bisogno veramente fisico di far pulizia con qualche migliaio di fucilazioni di massa in quel letamaio”. E il suo compagno di partito, Dante Livio Bianco, scriveva: ”Sarà inutile creare i nuovi organismi democratici se prima non si saranno arrestate, deportate, fucilate, espropriate quel certo numero di persone (non certo poche) che sono incompatibili con il nuovo ordine democratico”. Lo stesso Togliatti, un anno dopo la fine della guerra, durante un comizio a Reggio Emilia, e quindi in una delle zone più interessate dalle vendette politiche, affermava che questi omicidi non appartengono al DNA dei comunisti: un’affermazione chiaramente falsa per far capire a chi aveva orecchie per intendere che, almeno per il momento, le esecuzioni politiche dovevano cessare. Le stesse foibe (dopo l’8 settembre del 1943 e dopo la fine della guerra), che ancora qualcuno continua a negare o a minimizzare, che altro sono se non una pulizia politica, etnica e sociale perpetrata sulla pelle dei vinti?
Quindi niente di nuovo sotto il sole per le liste di proscrizione con cui i talebani si apprestano a gestire il dopoguerra nel loro Paese. La vera novità, tutta talebana, consiste nel fatto che alla politica si sono sostituiti l’integralismo religioso e la discriminazione sessuale: due elementi che ci riportano indietro di secoli e che alla nostra sensibilità laica ed erede dell’Illuminismo risultano particolarmente indigesti.
Ma qui si colloca il vero equivoco di una impresa nata senza un progetto, o meglio con un progetto di modernizzazione praticato nei fatti, con una presenza militare e civile durata vent’anni, e smentito altrettanto nei fatti con una fuga precipitosa, umiliante e vergognosa, che ha lasciato alla mercè degli integralisti e dei terroristi quella parte (non piccola) della popolazione che ha avuto il torto di credere agli impegni presi dall’Occidente durante gli anni passati. Una lezione per il futuro su cui tutti, da una parte o dall’altra della barricata dello sviluppo e della democrazia, avranno modo di riflettere, più o meno amaramente.