di Simonetta Della Seta da Panorama del 25 settembre 2003
Nel giorno dell’espiazione il governo laburista di Golda Meir fu colto alla sprovvista dall’attacco di egiziani e siriani. Poi il giovane generale Sharon disobbedì agli ordini e traversò il Canale di Suez, mutando il corso del conflitto
La chiamavamo la cucina di Golda, perché il nostro primo ministro, Golda Meir, radunava il gabinetto di guerra di fronte ai fornelli della sua modesta abitazione. Fu quel suo spirito di mamma ebrea a opporsi a una mobilitazione del paese il giorno del Kippur. Re Hussein di Giordania era venuto di nascosto fino a Tel Aviv per avvertirla che gli arabi avrebbero attaccato. Ma lei non volle togliere i padri alle famiglie durante la festa più solenne del nostro calendario. Pagammo cara quella scelta”. Balfour Zapler, allora portavoce dell’esercito, ricorda minuto per minuto quelle ore che precedettero l’attacco e perfino “il durissimo sfogo di Yitzhak Rabin (a quei tempi ambasciatore di Golda a Washington) contro la miopia del suo primo ministro”. Un trauma che Israele non ha mai superato. Un tragico errore di valutazione strategica, mai perdonato né ai militari né ai politici. La guerra del Kippur, scoppiata il 6 ottobre di trent’anni fa con l’attacco, simultaneo e a sorpresa, degli egiziani a sud e dei siriani a nord, il giorno in cui gli israeliani erano raccolti nelle sinagoghe e nelle case per celebrare il giorno dell’espiazione, resta per molti versi una ferita aperta.
Fu uno spartiacque: tra un Israele che si riteneva invincibile e un Israele capace di sbagliare, di perdere vite umane, di doversi perfino ritirare territorialmente. Tra la sensazione di avere il mondo arabo ai propri piedi, conquistata nel giugno 1967 con la guerra dei Sei giorni, e quella di essere di fronte a una realtà militare e politica ben più complessa. Tra il significato di una vittoria territoriale assoluta, ottenuta appunto nel 1967, e il sapore di una sconfitta iniziale e traumatica, che si trasformerà però in una specie di vittoria, spianando la strada alla possibilità di negoziare una pace con il nemico principale: l’Egitto di Anwar el-Sadat. La guerra del Ramadan (come viene chiamata in arabo poiché cadde nel mese santo dell’Islam) avrebbe dato ai nemici di Israele la sensazione di essere in grado di vendicarsi su chi li aveva umiliati sei anni prima. Un ritrovato orgoglio arabo, sul quale si sarebbero però poste le basi per la pace firmata sei anni dopo a Camp David tra Egitto e Israele. Accordo senza precedenti: avrebbe curato molte ferite della storia e tuttavia spaccato il mondo arabo, costando la vita, nel 1981, allo stesso Sadat.
“In realtà la guerra del Kippur rappresentò alla fine una vittoria ancora più importante di quella del 1967” spiega a Panorama l’opinionista israeliano Nahum Barnea “poiché i 2.700 soldati che sono morti hanno aperto l’opzione di una pace più vera e solida di quanto non abbia fatto la guerra precedente in cui li avevamo sbaragliati: gli arabi, se da un punto di vista demagogico l’hanno trasformata in un grande successo, hanno tuttavia capito che non sarebbero mai riusciti a batterci militarmente e che bisognava cercare vie diverse per convivere. Furono loro a chiedere il cessate il fuoco, quando le nostre truppe si trovavano a 80 km dal Cairo. Quelle battaglie portarono noi all’idea di poter rinunciare al Sinai occupato. Ma allora nessuno ci chiese di tornare ai confini del 1967 in Cisgiordania. Mentre si rafforzò l’asse con gli Stati Uniti, i quali ci aiutarono, da una parte, con un ponte aereo (che faceva scalo nel Portogallo di Salazar), dall’altra minacciando i russi che appoggiavano sia Damasco che Il Cairo”.
