di Simonetta Fiori da Repubblica del 4 giugno 1999
Finora è mancata una storia completa dell’Ovra, la leggendaria macchina repressiva del fascismo. Un “buco nero” dovuto al caso? Sfogliando il poderoso volume di Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, comprenderemo perché – per più di cinquant’ anni – la temibile creatura di Bocchini è rimasta occultata dietro imbarazzati silenzi, ostinate omissioni, vistose reticenze. Una sorta di compromesso “inconfessato e inconfessabile” che, in diversa veste e con diversa responsabilità, nel dopoguerra coinvolge un po’ tutti: le zelanti spie di Mussolini, beneficiari dell’ insabbiamento delle prove delatorie, e i leader di robusta fede democratica, paladini di un mito antifascista puro e incorruttibile che mal si coniuga con le ombre della compromissione. C’è il grande romanzo dell’Ovra, con il suo incredibile intreccio di ambiguità e delazione, tradimento e doppiogioco, provocazione e sospetto.
E c’è il romanzo del “dopo Ovra”, la cui trama non è meno avventurosa. Franzinelli li racconta entrambi, attingendo a una fonte preziosa – i servizi segreti angloamericani – che gli consente di aggirare gli impedimenti burocratici italiani: ancora oggi sono preclusi agli storici gli incartamenti dell’ Alto commissariato contro il fascismo (“Un divieto scandaloso!”, commenta lo storico). Parlando dell’Ovra, Franzinelli – collaboratore dell’ Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia – finisce per parlare dell’oggi. Molte delle personalità che eccelsero come tentacoli del Duce proseguiranno una brillante carriera nella polizia della Repubblica. Alcuni nomi riaffiorano nelle trame nere e nella strategia della tensione, perfino nella P2: protagonisti di quel sottostrato fangoso che è parte rilevante della nostra storia. Franzinelli, un documento tra quelli da lei trovati a Londra riguarda un episodio inedito e clamoroso. “Sì, susciterà polemiche forse anche strumentali, ma ho voluto produrlo lo stesso. Ne è protagonista Guido Leto che, insieme ad Arturo Bocchini, era la vera mente dell’ Ovra. Non solo comandava la polizia politica – incarico mantenuto in epoca badogliana e durante la Rsi – ma era anche il gestore degli archivi: conosceva cioè i segreti più scottanti”.
Che accadde a Leto? “Nel settembre del 1945, dal carcere di Regina Coeli – dove era detenuto – fu al centro di contatti assai singolari con dirigenti comunisti e socialisti. Il controspionaggio alleato lo teneva sotto stretta sorveglianza e appurò che il 27 settembre Leto fu prelevato dal carcere da Mario Spallone, medico carcerario e amico di Togliatti, e condotto nella casa degli Spallone in via Appia, dove ebbe un lungo colloquio con il segretario comunista. Al termine dell’ incontro, cenò in un ristorante e poi fu ricondotto in cella. Due giorni dopo, il prigioniero è nuovamente prelevato da Regina Coeli dal vicecommissario Marcello Guida – ex direttore della colonia penale di Ventotene – ed accompagnato a casa di Nenni, dove s’ intrattiene per un’ ora e mezzo”. Ma non era carcerato? “Figurarsi: gli stessi servizi segreti alleati ebbero a loro piena disposizione l’ex capo della polizia per una decina di giorni: volevano ricavarne informazioni sulla rete estera e – soprattutto – sul possibile riciclaggio di segmenti dell’Ovra in funzione anticomunista”. Ma perché Nenni e Togliatti lo mandarono a chiamare? “E’ lecito ipotizzare un uso ricattatorio dei fascicoli da parte di Leto: si impegnava al silenzio in cambio di garanzie per gli ex appartenenti all’ Ovra”. Sta dicendo che Leto sapeva cose compromettenti su alcuni degli uomini di Togliatti e Nenni? “Le carte di polizia facevano gola a molti, e Leto seppe volgere a vantaggio suo e degli ex collaboratori la notevole rendita di posizione che gli derivava dall’ essere depositario di segreti inquietanti: del fascismo ma anche di settori importanti dell’ antifascismo. Ne ottenne in cambio non soltanto il proscioglimento dalle procedure di epurazione, ma anche il reinserimento suo e di molti ex dirigenti degli ispettorati Speciali ai vertici della polizia politica “democratizzata””.
Leto godeva d’una sorta di benevolenza anche da parte avversaria. “Sì, era il fascista “buono e gentile”, quasi da onorificenza al merito resistenziale! Una sua accurata selezione memorialistica tacque le operazioni più nefande, accreditando una polizia afascista e a tratti frondista. Il guaio è che alcuni storici, anche negli ultimi anni, lo hanno assecondato”. A proposito di Leto, lei racconta un episodio inedito che riguarda lo storico Claudio Pavone. “Sì, ci aiuta a capire quali erano i metodi usati con i giovani antifascisti. Pavone, ventitreenne attivista socialista, la sera del 22 ottobre del 1943, a Roma, nell’ imminenza del coprifuoco, decide di liberarsi delle copie dell’ edizione clandestina dell’Avanti e di vari volantini che tiene nella borsa. Pensa bene di gettarli dentro un’ automobile con i vetri abbassati, parcheggiata davanti a un portone. Fatti pochi passi, viene afferrato da due persone e ricondotto davanti a quel portone, dove ha la sorpresa di trovarsi di fronte Guido Leto…”. Che ci faceva là il capo della polizia? “La vettura dove Pavone aveva gettato improvvidamente il materiale compromettente era di Leto…”. E poi che accadde? “Leto estrae dalla cintola una pistola per poi agitarla minacciosamente contro il giovane prigioniero. “Portatelo al commissariato e, se tenta di scappare, sparategli!”. Più tardi lo aggredirà nuovamente con una tempesta di insulti. Gli dà del mercenario. In questo episodio c’ è tutto: l’accanimento gratuito e la struttura mentale del questurino. Ernesto Rossi, nel dopoguerra, intuì la pericolosità di Leto, ma per mancanza di prove documentali non poté dargli battaglia fino in fondo”. Lei prima lamentava le reticenze anche da parte della stessa sinistra. “Quando le casse dell’Ovra furono aperte, fu grande l’ imbarazzo tra le forze assurte al governo. Il disagio scaturiva da una serie di situazioni sgradevoli. Anche l’ esperienza del fuoriuscitismo antifascista rischiava di rimanere infangata dalla rivelazione di casi – non isolati – di doppio gioco e tradimento”. Ci furono episodi di censura? “Un caso esemplare fu quello di Armando Aspettati, il compagno socialista che Pietro Nenni depennò dalla lista degli oltre seicento nominativi dell’Ovra pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale. Motivi di convenienza suggerirono silenzi e rimozioni: per carità di patria o per solidarietà con persone che, pur avendo rivestito per qualche tempo un ruolo oscuro, erano poi tornate alle loro origini politiche. Simili silenzi hanno impedito alla storiografia di confrontarsi compiutamente con la condizione reale del movimento operaio in epoca fascista. E costituiscono una sorta di peccato originale della democrazia italiana”.
Tra i miti da lei rovesciati, c’ è anche quello di un Pci impenetrabile – se non ai livelli più bassi – alle spie fasciste. “Un’ampia documentazione riguarda militanti comunisti che, dall’Unione Sovietica, tornarono in Italia per sfuggire a Stalin e all’internamento. Si trattava di quadri, non di semplici militanti. Immaginabili le loro condizioni psichiche ed emotive: più fragili d’un fuscello. Con un cinismo senza pari, la polizia di Leto non esitò a servirsene”. Tra le personalità eminenti, insidiate dall’Ovra, figura anche Amadeo Bordiga. “Sì, una storia dolorosa. La polizia gli mise alle calcagna un delatore insospettabile, l’avvocato Bruno Cassinelli, suo buon amico conosciuto negli anni della comune militanza socialista. L’intenso lavorìo delle spie, grazie anche alla collaborazione della moglie, operò per spingerlo su posizioni di aperta rottura con l’ortodossia comunista”. Lei mette continuamente in guardia dalle insidie di un atteggiamento moralistico. “Sì, uno dei limiti della storiografia è stato quello di squalificare retrospettivamente con l’etichetta del tradimento itinerari variegati e discontinui. Quella del collaboratore di polizia non è una categoria dello spirito, ma una situazione più o meno contingente in cui si sono trovate migliaia di cittadini”. Va detto che alcuni di loro non mancarono di perseveranza, specie nel dopoguerra. “Negli anni del centrismo, alcuni reduci dello spionaggio fascista furono ingaggiati dagli apparati riservati dello Stato, da settori oltranzisti della Democrazia Cristiana o da centri di pressione imprenditoriale per colpire la credibilità delle sinistre. Le tecniche della calunnia e della disinformazione, tipiche dell’Ovra, avevano fatto scuola”. Arriviamo così ai servizi segreti deviati. “Sì, anche se non è materia del mio saggio. Ma è sicuro che l’ostinata reticenza intorno all’Ovra, il fallimento dell’epurazione e la promozione a incarichi di responsabilità di efficienti spioni del Duce sono stati per diversi decenni potenti fattori di inquinamento nel nostro paese”.