Il processo di Tokyo iniziò il 3 maggio 1946. I giudici del Tribunale internazionale provenivano da undici Paesi.
di Alessandro Gnocchi da Il Giornale del 19/02/2017
Gli imputati, militari e politici giapponesi, erano ventotto. Pesantissime le accuse: crimini contro la pace; crimini contro l’umanità; crimini di guerra. L’antecedente era il processo di Norimberga contro i nazisti (celebrato tra il 20 novembre 1945 e il 1º ottobre 1946): per questo a Tokyo fu riprodotta l’aula tedesca ove si erano svolte le udienze. Il verdetto fu confermato dal generale Douglas McArthur, comandante supremo delle forze alleate in Giappone, il 24 novembre 1948. Sedici imputati furono condannati all’ergastolo, sette furono impiccati, tra loro il generale e primo ministro Hideki Tojo. L’imperatore non fu coinvolto. Motivazione ufficiale: non sapeva; ufficiosa: occorreva un’autorità giapponese per legittimare, con la sua presenza, le decisioni degli Alleati. La storia del processo di Tokyo, riletta attraverso gli occhi dei giudici, è ora una miniserie in quattro puntate disponibile su Netflix. La tv in streaming ha prodotto il film insieme con il canale pubblico giapponese NHK. Il risultato è interessante soprattutto per il desiderio di affrontare senza reticenze temi importanti. L’unica star del cast è l’attore indiano Irrfan Khan, noto al pubblico occidentale per aver recitato nel film premio Oscar The Millionaire di Danny Boyle. La regia di Pieter Verhoeff e Rob King si prende tutto il tempo che occorre per spiegare problemi complessi.
In Tokyo Trial sono sottolineate le atrocità commesse dai giapponesi nella Seconda guerra mondiale. Pari attenzione, se non superiore, è riservata ai dilemmi storici, politici, morali e giuridici che il tribunale nominato dagli Alleati dovette affrontare. Un esempio. L’avvocato della difesa (statunitense) Ben Bruce Blakeney prende presto la parola: le bombe atomiche, chiede alla corte, non devono forse essere annoverate tra i crimini giudicati in aula? Forse si dovrebbe condurre sul banco degli imputati anche chi diede l’ordine di radere al suolo Hiroshima e Nagasaki, incurante dei civili. Il processo vacilla. Il giudice indiano Radhabinod Pal (interpretato dal citato Irrfan Khan) muove ai colleghi tre appunti. Primo. I giudici non sono quelli «naturali» ma sono designati in modo arbitrario. Secondo. Il processo non ha basi giuridiche poiché gli imputati sono chiamati a rispondere di reati che, all’epoca in cui avvennero i fatti, non erano considerati tali (il patto di Parigi, in vigore dal 1929, vietava la guerra come strumento di politica internazionale, ma si era rivelato una utopistica dichiarazione d’intenti). Terzo. Perché la repressione giapponese nelle Filippine o in Manciuria sarebbe un crimine mentre la repressione europea nelle colonie asiatiche sarebbe un’azione di polizia contro il terrorismo?
A questo punto, la corte si spacca tra falchi e colombe. Secondo i falchi, il processo non solo è legittimo ma deve anche condurre a un verdetto esemplare. Se così non fosse, crollerebbe anche Norimberga e sarebbe come dire ai posteri: continuate pure con le guerre d’aggressione. Le colombe replicano che queste sono considerazioni aliene al diritto, che non può fare un passo indietro di fronte alla politica. I falchi controbattono che il diritto internazionale procede «a scatti» e per questo il processo di Tokyo è un’occasione da non perdere per farlo progredire. I falchi avranno la maggioranza in camera di consiglio, ma le colombe non cambieranno opinione. Chi aveva ragione? Il film, esemplare anche in questo, lascia che sia lo spettatore a emettere la propria sentenza, ammesso che sia possibile districare completamente le contraddizioni della Storia.