di Monaldi e Sorti dal Messaggero di sabato 27 marzo 2021
La mattina del Dantedì scopriamo per puro caso un articolo in tedesco dal tono critico nei confronti di Dante, mettendolo per altro a confronto con Shakespeare. Avendo appena pubblicato un romanzo che è al contempo un saggio su Dante e Shakespeare, siamo saltati sulla sedia. Come, proprio oggi?
Eppure era vero. Un noto critico, Arno Widmann, su uno dei giornali tedeschi di tradizione (Frankfurter Rundschau) si era messo in testa di ridicolizzare, banalizzare e ridimensionare Dante e la Divina Commedia. Usando tra l’altro un confronto senza senso con Shakespeare, nato tre secoli dopo e «anni luce più moderno». Lo ha fatto pensando probabilmente di non essere beccato dagli italiani: il suo tedesco infatti è ben diverso da quello standard. È la lingua elevata dei critici letterari; usa giri di parole, traslati, il veleno passa attraverso allusioni. Il tutto, non a caso, prende due fitte paginone del quotidiano: circa il triplo di un lungo articolo italiano.
Appena abbiamo reso nota la bravata, è esplosa una gazzarra senza fine. Era la sacrosanta indignazione per un attacco beffardo e superficiale ad un simbolo non tanto dell’Italia, quanto del genio universale. Tuttavia l’articolo tedesco non attaccava solo Dante, ma anche e soprattutto gli italiani. «Tutta l’Italia si piega in ginocchio davanti al suo poeta nazionale»; un poeta che però, tutto sommato, non merita tanto: questo in sintesi il commento della TV pubblica bavarese, venuta subito in soccorso di Widmann a definire il suo articolo un «Dante-Bashing», un «pestaggio a Dante».
Sarcasmi che offendono, certo, ma ai quali non siamo nuovi. Sappiamo rispondere con uguale ironia a questo antico sport ancora non del tutto sradicato tra i popoli d’oltralpe (malgrado vi abbondino autentici estimatori del nostro paese): screditare i simboli della Penisola, che forse tanto volentieri vorrebbero possedere. Come ben ha commentato su Facebook un nostro lettore, anche lui da vent’anni all’estero, prima del Dantedì è toccato alla “Mafia in Finale”, la nazionale “mafiosa” ai mondiali di calcio, e prima ancora al piatto di pastasciutta sovrastato dalla P38. Noi italiani non capiremo mai abbastanza cosa ci trovino di tanto divertente, anche perché nel nostro dizionario manca del tutto il termine tedesco per definire questo atteggiamento: “Schadenfreude”, cioè “gioia nel danneggiare”; il prossimo, ovviamente. «Un canovaccio risaputo – concludeva quel nostro lettore, che ringraziamo – in cui si fa sfoggio di preparazione ed accuratezza di indagine, per suffragare conclusioni di tenore ben più basso, senza dimostrare nulla di nuovo, tra citazioni apparentemente pertinenti e sagaci per sminuire e banalizzare». Nulla da aggiungere.
Ma bisogna tentare di capire. Chi non conosce la storia, non conosce se stesso e non sa dove va. L’avversione dei popoli d’oltralpe verso l’Italia ha radici storiche fortissime. Ne abbiamo parlato a lungo nei nostri libri quando, ad esempio, abbiamo rievocato gli italiani nella Francia del Cinquecento e Seicento o la Roma del Quattrocento, in cui la comunità tedesca era fortissima. Per restare in tema tedesco, l’anti-italianismo ha la sua culla nella Germania di Tacito, scoperta nel Quattrocento, che descrive gli antichi Germani come rozzi, ma pii e di costumi incorrotti. E li contrappone alla Roma di allora, che Tacito sapeva essere corrotta e decaduta. Soprattutto, scriveva Tacito, i Germani provengono da un unico ceppo, mai mescolato con altri. Da questo famoso passo nasce il mito della purezza razziale tedesca, che implica la superiorità sulla Roma viziosa e ladrona. Di questo slogan si impadronirà Lutero per fare la sua guerra al Papato, affascinerà Engels e infine arriverà ad Hitler, i cui scherani (Himmler in testa) crearono un’intera delirante mitologia, largamente basata su falsificazioni, in cui i Germani erano il popolo più antico e nobile, destinato a sottomettere ed umiliare il resto d’Europa. L’italiano quindi diventa una razza inferiore, politicamente inetta, e degna di essere ridicolizzata. Se si rileggono le opere di Jakob Wimpfeling (1450-1528), uno dei predicatori che preparano la strada a Lutero, si rabbrividisce per lo sprezzo dedicato al nostro paese. Un fil rouge di cui ha parlato anche Luciano Canfora in un bel libro ormai introvabile (La Germania di Tacito da Engels al nazismo, Napoli 1979).
Invece, come anche il provocatore Widmann sa benissimo, la Germania non ha un atout storico e culturale da vantare. Si è unificata politicamente, culturalmente e linguisticamente molto più faticosamente dell’Italia. Noi leggiamo e capiamo Dante, Petrarca o Boccaccio. Un tedesco di oggi, come parecchi altri popoli europei, non è in grado di capire i suoi autori del lontano passato, men che meno quelli medievali. Noi stessi ne abbiamo fatto esperienza, avendo pubblicato per 13 anni solamente all’estero e avendo pertanto lavorato in totale simbiosi con i nostri traduttori per rendere in traduzione i passi dal sapore dell’italiano antico. Per 13 anni non abbiamo tenuto in mano nostri libri freschi di stampa che non fossero in tedesco, francese, inglese, olandese o spagnolo. Abbiamo toccato con mano, meglio di chiunque altro, il miracolo che Dante ha fatto alla nostra lingua, come ha dimostrato il compianto Tullio De Mauro: «Non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante» . L’86% della lingua dantesca infatti è formato da parole che oggi continuiamo a usare. Il nucleo di circa 4500 parole dell’italiano moderno, le più affermate e frequenti, è la lingua di Dante. Erano lì già ai primi del Trecento, quando tedeschi, francesi e spagnoli erano lontani anni luce dall’avere una lingua nazionale. Gli inglesi hanno usato in maggioranza il normanno (ne abbiamo parlato abbondantemente nel nostro Dante di Shakespeare) fino al regno di Enrico V (1387-1422), anche nei documenti ufficiali. A quell’epoca in Italia erano stati già scritti la Divina Commedia, il Canzoniere di Petrarca, il Decamerone di Boccaccio, e nessuno si sognava lontanamente di usare lingue parlate al di là delle Alpi. L’Accademia della Crusca e il suo dizionario arrivano in anticipo di secoli (e a livelli più alti) rispetto a tutti gli altri paesi europei, Germania compresa.
Shakespeare ha svolto per la lingua inglese una funzione creativa analoga a quella di Dante per l’italiano. E quindi è un nonsenso, come ha fatto il critico tedesco, istituire una specie di gara tra i due. Ma l’assurdo sta anche in questo: Shakespeare stesso conosceva Dante, come altri autori inglesi ha attinto al tesoro di situazioni e personaggi della Commedia (esistono ormai studi molto dettagliati su questo rapporto) e lo ha valorizzato con la propria arte. I ghiacci infernali di Cocito sono prima in Dante e poi in Shakespeare, e così l’uso continuo delle visioni e delle allucinazioni come espediente drammatico (si pensi ai continui svenimenti di Dante, e alle visioni di Amleto). La Commedia era conosciuta in Inghilterra già nel Medioevo, ad esempio tramite Chaucer, padre nobile della letteratura inglese. Noi stessi abbiamo scoperto che il primo ritratto a stampa di Dante in Inghilterra venne realizzato nella cerchia di amici e colleghi di Shakespeare. Un genio non può sfuggire ad un altro genio.