A cento anni dalla morte la salma del dittatore sovietico ha ancora un mausoleo nel cuore di Mosca. Uno studio della Salomoni ne indaga le vere ragioni sulla base dell’idea di potere e di Grande Russia del Cremlino
di Roberto Righetto da Avvenire del 4 aprile 2024
Per chi vuole approfondire la situazione culturale e politica della Russia di oggi vale la pena prendere in mano il libro Lenin a pezzi di Antonella Salomoni (il Mulino, pagine 216, euro 22,00), che attraverso una ricostruzione di quanto accaduto al corpo e alla memoria del leader bolscevico, dopo la morte avvenuta cent’anni fa, ci fa comprendere come la sua figura resti imbalsamata in tutti i sensi. Un’eredità ben rappresentata nel memoriale che ne raccoglie le spoglie nella piazza Rossa di Mosca e che nessuno ha avuto il coraggio di toccare, nemmeno Putin, nonostante molte richieste si siano levate in tal senso dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica.
Lo storico Arsenij Roginskij, fondatore e poi presidente di Memorial, fu tra coloro che ne chiese la traslazione e così si espresse nel 2011: «Lenin ha gettato le basi del terrore di Stato, che per settant’anni è stato la principale leva del governo del Paese. Lenin è direttamente responsabile del terrore di massa dei primi anni del potere sovietico. Era l’ideologo e il capo del terrore. Se vogliamo costruire uno Stato di diritto e libero, il corpo di Lenin nella piazza Rossa non è solo inappropriato. Esso confonde tutti i nostri punti di riferimento storici».
Sappiamo bene com’è finito il progetto di fare della Russia una democrazia. Proprio Putin qualche anno prima, interrogato al riguardo, disse di essere contrario allo spostamento per rispetto verso tutti coloro che ancora si identificavano con i valori dell’Urss. Eppure, nel 2020 fu indetto un concorso dall’Unione architetti di mosca per riconsiderare lo spazio pubblico ove si trova il mausoleo. Nel bando si poteva leggere che la presenza del corpo di Lenin era ormai da considerare in contrasto con «un Paese consapevole degli errori storici del passato». Però non se ne fece nulla e il concorso fu annullato dopo pochi mesi.
Tutto ciò ha certamente a che fare con il progetto di Putin di ripristinare non tanto l’Unione sovietica ma la Grande Russia, recuperando il più possibile i territori perduti dopo il crollo del 1991. Lui stesso ha precisato la sua visione nel 2016 durante una riunione del Forum popolare panrusso, in cui in un intervento che ha fatto molto discutere prendeva le distanze in maniera chiarissima nei confronti di Lenin. Quello che rimproverava al padre dell’Urss era di aver posto le basi della sua stessa dissoluzione sancendo il diritto all’autonomia delle varie nazioni che venivano man mano inglobate nel nuovo Stato comunista.
«Questi pensieri – ha detto Putin – hanno piazzato una bomba atomica sotto l’edificio chiamato Russia, e poi essa è esplosa». E ha specificato: «Lenin sostenne che lo Stato, l’Unione sovietica, dovesse essere formato sulla base della piena parità di diritti, compreso il diritto di uscire dall’Unione sovietica. E questa è la mina a scoppio ritardato posta sotto l’edificio della nostra statualità». Pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, il leader del Cremlino poteva ancor più affondare i colpi: in un discorso alla nazione del 21 febbraio 2022 rimarcava come i principi leniniani di costruzione dello Stato si erano alfine rivelati «molto peggio di un errore» dato che avevano favorito «il bacillo delle ambizioni nazionaliste».
Tutto torna insomma e l’autrice, una delle più profonde conoscitrici del passato e del presente della Russia, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna, sviluppa un ragionamento che dalla vicenda della mummificazione del corpo di Lenin alla costruzione del memoriale fino alla Leninopad, vale a dire la demolizione dei monumenti a lui dedicati soprattutto nelle nazioni che si sono liberate dal giogo di Mosca, Paesi Baltici e Ucraina in primis, approda appunto alla situazione attuale.
«In Ucraina – annota Salomoni – la presenza diffusa di statue del fondatore dello Stato sovietico, fenomeno estremo di standardizzazione monumentale e adozione di un canone artistico che avrebbero dovuto produrre un sentimento unico e un unico pensiero in chi guardava, era stata denunciata fin dai primi anni Novanta come emblema della “schiavitù spirituale” del popolo ucraino». Al punto che lo smantellamento delle statue di Lenin non aspettò la dichiarazione di indipendenza del 1991.
Negli anni seguenti, la desovietizzazione e la decomunistizzazione si sono accompagnate alla decolonizzazione, cioè alla liberazione dai segni di un passato di asservimento a Mosca non solo politico ma anche culturale. La guerra voluta da Putin non è stata altro che l’espressione brutale della volontà di ristabilire l’ordine precedente. Frutto di una visione e di un sistema totalitari, pronti a spazzare via ogni tentativo di opposizione e che sembrano inscalfibili. Salvo qualche breccia che talora si apre, come la protesta silenziosa da parte di tanta gente comune dopo la morte di Navalnyj e come il successo clamoroso nelle sale di tutta la Russia del film Il maestro e Margherita, già visto da quasi 5 milioni di persone. Opera del regista Michael Lockshin tratto dal romanzo di Bulgakov e non tanto velata critica al regime autoritario di Putin.