Marco Valle nel suo libro “Viaggiatori straordinari” racconta i grandi esploratori italiani
di Roberto Roveda da Unione Sarda del 14 febbraio 2024
L’Ottocento fu l’epoca delle grandi esplorazioni, soprattutto per quanto riguarda il continente africano. L’immaginario popolare dell’epoca si nutriva delle gesta di uomini alla conquista di immensità sconosciute, con in testa il casco coloniale e nelle mani una mappa, un sestante o un fucile. Era un ritratto evocativo, ma stereotipato. Gli esploratori furono molti e molto diversi tra loro. Alcuni furono la semplice espressione della loro epoca e dell’ambiente culturale e politico in cui erano nati e cresciuti. Svolgevano una funzione ben precisa: informare i contemporanei e i governi del loro Paese sullo stato del mondo, cercare risorse, fondare colonie. Al tempo stesso, però, molti esploratori furono uomini inquieti, a disagio se non in totale rottura con le società da cui provenivano. Nelle terre sconosciute uomini di questa tempra cercavano non solo fama e ricchezze, ma la possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
Di quell’epopea il cinema e l’editoria hanno consegnato una lettura quasi esclusivamente anglosassone, imperniata sui nomi di Livingstone, Stanley, Burton, Speke. Degli esploratori italiani, che pure furono molti e importanti, si è sempre detto poco.
Marco Valle nel volume “Viaggiatori straordinari” (Neri Pozza, 2024, pp. 320, anche e-book) si è messo sulle tracce di quella comunità avventurosa di nostri connazionali che percorsero le zone più selvagge e inesplorate dei cinque continenti. Ha ricostruito vicende fuori dal comune, però in buona parte dimenticate.
Abbiamo chiesto il perché di tanto oblio a Marco Valle:
«Negli anni, per una stramba forma di ritrosia mista a provincialismo, abbiamo preferito adagiarci nella narrazione angloamericana sulle grandi esplorazioni, dimenticando l’importante contributo offerto dalla ‘comunità avventurosa’ italica che a partire dal Settecento in poi si è inoltrata nelle zone più sconosciute e misteriose del globo. Un peccato, oltre che un errore di prospettiva poiché ritroviamo storie e personaggi eccezionali e sorprendenti».
Ci fa qualche nome?
«Possiamo partire da Ippolito Desideri che arrivò in Tibet o da Giacomo Beltrami giunto alle sorgenti del Mississippi; da Giovanni Belzoni, ‘padre’ dell’egittologia moderna, da Orazio Antinori e Carlo Piaggia in Africa, da Luigi Amedeo di Savoia fino a Odoardo Beccari nel Borneo, Giacomo Bove in Patagonia, Pietro Savorgnan di Brazzà in Congo, Guglielmo Massaja e Vittorio Bottego in Abissinia, Giovanni Miami sul Nilo, Giovan Battista Cerruti in Malesia. E ancora nel Novecento Alberto de Agostini in Patagonia, Raimondo Franchetti in Dancalia, Giuseppe Tucci in Asia e Ardito Desio nel Sahara. Le loro storie e avventure ci sono tutte nel mio libro».
C’era qualcosa che distingueva i nostri esploratori da quelli delle grandi potenze coloniali, Francia e Inghilterra in primis?
«In tutti i miei protagonisti notiamo una capacità di avvicinarsi in modo originale e rispettoso a popoli e culture sideralmente diverse. A differenza dei loro colleghi inglesi o francesi, i nostri ‘viaggiatori straordinari’ abbandonarono, con sensibilità e modi differenti, l’iniziale sguardo positivista ed eurocentrico per acquisire una nuova e differente consapevolezza del mondo e delle sue genti. Considerando i contesti del tempo un dato per nulla scontato».
Quale delle tante storie che ha raccontato nel libro l’ha colpita maggiormente? C’è un personaggio a cui è particolarmente legato?
«La scelta è ardua. Sicuramente mi ha colpito l’epopea Pietro Savorgnan di Brazzà in Congo. Questo friulano coraggioso e idealista sottrasse, donandolo alla Francia, parte dell’enorme regione alla rapacità di re Leopoldo del Belgio in nome di un ‘colonialismo di civiltà’; un sogno romantico che Parigi però non apprezzò. Richiamato in Europa lo attese una fine tragica quanto opaca. Ma gli africani non lo dimenticarono. Ancor oggi, caso unico per l’epoca postcoloniale, la capitale del Congo ex francese porta orgogliosamente il suo nome: Brazzaville».
L’Italia sforna ancora grandi esploratori?
«Le nuove frontiere dell’esplorazione italiana sono il Polo Sud e lo spazio. Dal 1985 il CNR organizza annualmente importi missioni di studio e ricerca nell’Antartide partendo da base Zucchelli e dal centro italo-francese Concordia. Poi vi sono le stelle con i nostri magnifici astronauti: ‘AstroSamantha’ Cristoforetti e i suoi compagni d’avventura. Grazie a loro la saga spaziale è anche tricolore».