di Marcello Veneziani, da La Verità del 18 marzo 2022
La miserabile cancellazione di Italo Balbo dalla flotta aerea di Stato, chiesta e ottenuta da un parlamentare della sinistra che non val la pena nemmeno citare, solleva una questione che va ben al di là del leggendario personaggio, eroe di pace, fondatore dell’aeronautica italiana e trasvolatore onorato in tutto il mondo per le sue imprese straordinarie. È una questione che va pure al di là del trito e ritrito divieto di verità sul fascismo e sull’antifascismo. Tocca il nostro rapporto con la grandezza, con gli eroi e con la nostra storia.
Siamo nani sulle spalle di giganti ma la cosa meschina è che i pigmei martellano la testa dei giganti e li vituperano, mentre sono seduti in alto grazie a loro. L’Italia sarebbe solo un’espressione geografica, per dirla con Metternich, se non ci fossero stati i giganti a fondarla, innalzarla e lasciare tracce indelebili nelle opere e nelle imprese, nelle città e nell’arte, nella storia e nella letteratura.
Da decenni, ormai, la guerra alla storia ha assunto la piega più infame: non la revisione storica per cogliere i lati in ombra dei grandi – geni, condottieri, scopritori ed eroi- ma la rimozione a priori, la cancellazione, sulla base di un’etichetta che suona come un marchio d’infamia a priori: razzista, nazifascista, criminale di guerra. Accuse che nel caso specifico di Balbo sono peraltro infondate, ma non è del caso Balbo che stiamo ragionando.
Applicare quei criteri retroattivi alla storia, ai miti e agli eroi significa eliminare ogni storia e ogni traccia di eroismo, lasciando al più solo le vittime, ma solo quelle dalla parte politicamente corretta. Finora ci ha salvati, paradossalmente, l’ignoranza e l’incoerenza degli inquisitori e dei questurini: se conoscessero le biografie dei condottieri di tutti i tempi, da Alessandro Magno a Napoleone, passando per i nostri Cesari e per qualunque altro condottiero, li cancellerebbero come spietati criminali di guerra; con relativa rimozione dei loro nomi dalla storia e dalla toponomastica.
Ma la censura fa salti, si accanisce solo col Novecento o retrocede agli antichi a casaccio, random, solo perché qualcuno ha estrapolato, magari da wikipedia, una frase razzista, un pensiero misogino, un’espressione sessista.
Il problema è ancora più radicale e sconfortante: è l’incapacità di cogliere e rispettare la grandezza, la bellezza, l’eroismo, le grandi imprese non solo sportive ma a rischio di vita (come furono le trasvolate di Balbo, che ebbero dei caduti); le grandi opere di fondazione, i solchi e le eredità che lasciano. Non abbiamo più mente né occhi per vedere la grandezza, per rispettarla, se non per ammirarla, o quantomeno per riconoscerla, anche obtorto collo; non riusciamo a uscire dal metro piccino dei precetti presenti e sulla base di quelli siamo pronti a bandire chiunque. Il criterio è uguale a chi abbatte le statue di Cristoforo Colombo o di chi denigra Dante o Shakespeare perché scrissero cose incompatibili col lessico stupido dei nostri giorni e con i suoi pregiudizi.
L’opera di demolizione degli eroi e dei grandi segue due strade, e non saprei dire quale sia la peggiore. La prima si riassume in quella stupida frase estrapolata da Bertolt Brecht: Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Ovvero le masse sono le uniche forze che contano nella storia; non i geni, non i condottieri, non gli eroi o i santi. Questa visione antieroica è un residuo tardivo della mentalità comunista, collettivista e livellatrice, che coincide di fatto con l’abolizione della storia.
Ma c’è pure una seconda operazione molto praticata in questi tempi: ed è la sostituzione degli eroi cancellati con una produzione di finti eroi, di palloni gonfiati, se non di veri e propri antieroi, eco-sostenibili, cioè compatibili con l’epoca. Terroristi, violenti o tossici che diventano martiri ed esempi, ma anche martiri senza martirio, nullità elevate a modelli, mediocri personaggi innalzati al rango di statisti e di grandi e poi celebrati come eroi d’Italia, d’Europa, dell’Umanità.
Il risultato di entrambe le vie è la decadenza, il degrado verticale della società, l’incapacità di distinguere la luce dall’ombra, il grande dal meschino, il merito dal demerito, l’eccellenza dall’ordinarietà. Con l’effetto aggiunto di mortificare e disincentivare ogni ricerca di elevazione, di miglioramento, di riconoscimento. Non serve a nulla la tua impresa, la tua opera, le tue fatiche, i tuoi studi e i tuoi risultati; il metro della storia segue criteri ideologici in cui non c’è spazio per l’eccellenza, la qualità, l’altezza. Per i pigmei tutto sa di pigmeo.
Ma ciò che rende ulteriormente patologica questa mania di cancellazione è il contesto a cui si riferisce, l’Italia. Se la cancellazione si accanisce in America, è una pagina infame ma si tratta di un paese povero di storia e di tradizioni. Ma se la cancellazione riguarda un paese antico come l’Italia, la cui vera ricchezza e grandezza è legata proprio alla sua storia e alle grandi imprese, allora il danno è letale. L’Italia non spicca per potenza economica, tecnologica o militare né per potenza demografica o vastità territoriale: la sua eccellenza è proprio legata a quelle vette e ai loro lasciti, alle tracce di storia. Se le cancelliamo, cancelliamo pure noi. Se poi lo scopo finale è sostituire gli italiani con i migranti, meglio se africani, allora tutto coincide. Risparmiateci almeno la retorica: non parlate più di cultura, di civiltà, di patria e nemmeno di progresso. Non ne avete il diritto perché state lavorando per la loro definitiva distruzione. Balbo solcava i cieli, i barbari pigmei strisciano nel sottosuolo.