La Francia della Monarchia assolutista del Re Sole è anche la culla della cucina raffinata moderna: alle solite i francesi non si fecero problemi ad appropriarsi di cibi e ricette altrui (soprattutto italiane, guarda caso…) in nome di una «grandeur» che era soprattutto nazionale ma anche personale. Infatti è a metà del Seicento che nasce una figura molto in voga anche oggi: lo chef. All’ombra di Versailles, il cuoco diventa un vero artista, perché la cucina rivendica il diritto di essere considerata un’arte
di Elena e Michela Martignoni da Storia in Rete n.153-154
Porre date precise per qualsiasi fenomeno storico è azzardato, ma in questo caso possiamo dire che l’uscita di un ricettario, nel 1651, segna la nascita della grande cucina francese. Dopo ben 150 anni di silenzio, infatti, appare il ricettario «Le cuisinier françois» di Pierre François de La Varenne (1618-1678), per dieci anni cuoco del conte d’Uxelles. Il testo ebbe ben 41 riedizioni in 50 anni e continuò a essere consultato fino agli inizi del XIX secolo. Fino ad allora i ricettari non insistevano sulla nazionalità delle ricette, anche se esistevano differenze tra un paese e l’altro. Ad esempio: i grandi ricettari italiani del Cinquecento, che fecero scuola in tutta Europa, non mostrano mai il minimo accenno nazionalista. Per trovarne dobbiamo risalire – guarda caso – al ricettario «Le Mesnagier de Paris» del 1393. Tutti i trattati culinari francesi, pubblicati a ritmo sempre più serrato nel Seicento e nel Settecento, non faranno che ribadire la superiorità della Francia in ogni campo e naturalmente la superiorità della cucina francese, sorvolando opportunamente sulle ricette che, qua e là, venivano riprese dai grandi cuochi italiani del Rinascimento.
Durante il regno del Re Sole, assistiamo alla prima globalizzazione della storia moderna. Tutta l’Europa è così affascinata dalla Francia che ci si veste alla francese, ci si acconcia alla francese, ci si trucca alla francese, si parla in francese tra re, aristocratici e ambasciatori. Gli studiosi hanno tentato di spiegare questo fenomeno, ma pur considerando la forte personalità di Luigi XIV, i suoi legami con i regnanti di Spagna, Gran Bretagna e Savoia, il fasto della sua corte, le personalità artistiche del suo regno, nessuno arriva a spiegare in modo convincente quella dilagante e inarrestabile francomania, cui la cucina collaborò non poco. Al testo di La Varenne seguirono «Le jardinière français» di Nicolas de Bonnefons (1651), «Le patissier françois» (1653), «Les délices de la campagne» di Nicolas de Bonnefons (1655), «Le cuisinier» di Pierre de Lune (1656), «L’École parfaite des officiers de bouche» di Pierre Ribou (1662), «L’art de bien traiter» di L.S.R., «Le nouveau et parfait cuisinier» di Pierre de Lune (1668), «Le cuisinier royal et bourgeois» di François Massialot (1691), «La maison bien reglée» di Audiger (1692). E non mancarono numerose riedizioni, anche nel secolo successivo. Il numero, la frequenza di apparizione e la diffusione all’estero di questi ricettari forgiarono una precisa fisionomia culinaria, consolidarono la fama della cucina «alla francese», e ne diffusero lo stile, i procedimenti e la terminologia.
Il cuoco francese del XVII secolo usava molti ingredienti diversi, ma voleva renderne irriconoscibili i sapori nel risultato finale. Per camuffare, ma anche per variare all’infinito i gusti, giocava con insaporitori preparati in anticipo: i vari bouillon (brodi ricchissimi lasciati cuocere per ore), i jus e i coulis (di manzo, di vitello, di pernice, di gamberi, di funghi, di prosciutto, ecc…). Si osa così rompere con molte regole del passato: anteporre il piacere alla salute, usare prodotti prima giudicati nocivi (ad esempio funghi e tartufi), ricorrere a verdure prima considerate poco eleganti (come le rape e la scorzonera), diminuire notevolmente le spezie (ritenute medicamentose e non certo usate per coprire gli alimenti guasti!), usare sempre più salse grasse e dense al posto delle salse acidule e leggere di un tempo. Abbandonare gli animali scenografici come pavoni, gru, aironi, e, pur lasciando sempre ampio spazio alla cacciagione, servire bovini, ovini e animali da cortile, senza buttare via niente, nemmeno le parti che a noi oggi sembrano indegne di una tavola elegante (il cosiddetto «quinto quarto»: creste di gallo, zampe, lingua, rognoni, animelle, trippa, milza, zampe, muso e orecchie di maiale, tettina). La frutta, che i medici consideravano pesante per lo stomaco, diventò il dessert (cioè la conclusione) per eccellenza, sia fresca sia conservata in vari modi. I ricettari presentano il cuoco non più come un manovale chiuso in un antro pieno di fumo e sporcizia, ma come un vero artista, perché la cucina rivendica il diritto di essere considerata un’ arte a pari livello delle altre. E questo porta a considerare la competenza culinaria e l’amore per la buona tavola non più «peccati di gola» ma espressioni di buongusto e cultura.
Durante il regno di Luigi XIV si diffuse in tutta Europa non solo la cucina alla francese, ma anche il modo francese di servire i pasti: il service à la français contemplava tre o quattro services o portate (prima potages-entrées-hors d’oeuvres; poi arrosti e bolliti; seguivano gli entremets; si concludeva con i dessert). Ogni service era composto da molti piatti diversi presentati tutti in tavola contemporaneamente, e disposti secondo schemi coreografici precisi, che variavano in base alla forma della tavola, al numero dei commensali e delle portate. Per questo nei ricettari, oltre alle ricette e ai suggerimenti dei menu in base alle stagioni, venivano forniti anche schemi dispositivi dei vari piatti.
Nel XVIII secolo, in una società tutta votata alla ricerca del piacere in ogni forma, si vide una fioritura ancora più copiosa di trattati di cucina: nel 1735 «Le cuisinier moderne» di Vincent La Chapelle, nel 1739 «Les dons de Comus» di Marin, nel 1739 il «Nouveau traité de la cuisine» di Menon, nel 1740 «Le cuisinier gascon», nel 1742 «Suite de dons de Comus» di Marin, nel 1742 «La Nouvelle Cuisine» di Menon, nel 1746 «La Cuisinière bourgeoise» di Menon (il grande bestseller del secolo), nel 1749 «La science du Maître d’hôtel cuisinier» di Menon, nel 1750 «Dictionnaire des aliments, vins et liqueurs» (attribuito a François-Alexandre Aubert de La Chesnaye Des Bois, o a Briand), nel 1750 «La science du Maître d’Hôtel-confiseur» di Menon, nel 1751 «Le Cannameliste français», nel 1755 «Les soupers de la Cour» di Menon, nel 1758 «Traité historique et pratique de la cuisine» di Menon, nel 1759 «Le Manuel des officiers de bouche» (attribuito a Menon), nel 1767 «Dictionnaire portatif de Cuisine d’Office et de Distillation», di F. A. Aubert de la Chesnaye des Bois. Un numero notevole, anche senza considerare le varie riedizioni nel corso degli anni. In cucina, ai jus e ai coulis, si aggiunsero le essences, le quintessances, le glaçes; burro e panna progressivamente sostituirono il lardo; si impiegarono a profusione gli ingredienti stimati afrodisiaci (ostriche, tartufi, e… carciofi); aumentò l’impiego del foie gras, e fecero la loro comparsa il parmigiano (molto amato da Menon, il cuoco più prolifico del secolo) e la pasta (vermicelli, maccheroni e lasagna). Soprattutto aumentò sempre più il numero delle salse, ormai imprescindibili con qualunque piatto, e ottenute di solito sfruttando i sughi di cottura. Il costo più abbordabile dello zucchero, grazie alle importazioni dalle colonie d’oltreoceano, permise poi lo sviluppo dell’arte dolciaria.
Con maggiore orgoglio rispetto ai colleghi del secolo precedente, i cuochi del Settecento ritenevano di essere artisti che giocano con i sapori come i pittori con i colori e musicisti con le note. Rivendicarono di essere veri chimici perché distillavano il meglio di ogni alimento, addirittura scienziati che preservavano la salute meglio dei medici, e con i loro piatti raffinatissimi miglioravano anche lo spirito e la mente dei commensali. Il cuoco diventò insomma una specie di pigmalione capace di operare miracoli su coloro che avevano il privilegio di gustare le sue creazioni. A molti verrà in mente il bel film «Il pranzo di Babette», che pure si svolge nel XIX secolo, ma che ha come protagonista una cuoca francese. Simili portenti di cuochi però esigevano commensali competenti, con cui creare un’intensa relazione: i commensali stimolavano/ispiravano/correggevano l’opera del cuoco, e il cuoco con i suoi capolavori faceva evolvere il gusto dei suoi commensali. Come risultato, rubarsi il cuoco divenne un crimine nell’alta società, e i cuochi francesi divennero richiestissimi all’estero. Il mestiere però si mascolinizzò, perché tanto genio e creatività erano considerati – ovviamente – doni esclusivamente maschili. Quindi l’alta aristocrazia aveva dei cuochi, mentre la borghesia aveva delle cuoche.
La cucina nel Settecento diventò un hobby alla moda: il reggente Filippo d’Orléans, Luigi XV e diversi grandi aristocratici cucinavano per i loro ospiti. Molte ricette portano il nome di illustri casate (à la Mailly, à la Noailles, à la Villeroy, à la Mirepoix, à la Grammont…). Il «Filetto alla Conti» (il principe era cugino di Luigi XV), ad esempio, prevedeva un filetto di vitello lardellato con tartufi, animelle di vitello e foie gras, messo al fuoco con burro, prezzemolo, cipollotti, champignon affettati. Posto poi con questi ingredienti in una casseruola foderata con fette di prosciutto e di vitello, lo si copriva con fette di lardo, poi lo si faceva sudare per un’ora sulla cenere calda. Si bagnava con un bicchiere di champagne, si terminava la cottura, si metteva da parte il filetto al caldo. Si aggiungevano due cucchiai di coulis di vitello al sugo di cottura, si faceva bollire un momento, si sgrassava, si filtrava, si aggiungeva succo di limone, sale e pepe e si irrorava col questo sugo il filetto. Come mostra questa ricetta, la cucina francese era elitaria, con piatti che richiedevano enormi quantità di ingredienti costosi. Eppure i cuochi riservarono grande attenzione anche alle tavole borghesi, offrendo ricette meno costose, più semplici e per questo molto più sane. Non a caso «La Cuisinière bourgeoise» fu il bestseller del secolo. Ciò che contava di più è che in questo modo si riconosceva a tutti il diritto a mangiar bene, e le prefazioni dei ricettari, scritte da intellettuali di vaglia, lo scrivevano chiaramente.
Quindi l’«Uguaglianza», in Francia, nacque a tavola prima che negli scritti degli Illuministi e prima della Rivoluzione del 1789. Solo ai popolani e ai contadini non veniva riconosciuto questo diritto, perché si riteneva che ci fosse una relazione tra cibo e modo di pensare: dunque il cibo delicato era per chi svolgeva mestieri di concetto (o non lavorava affatto), mentre per gli stomaci robusti delle classi inferiori era adatto un cibo grossolano e pesante. Per ironia della sorte, molti dei cibi della plebe erano in realtà più nutrienti e sani di quelli riservati ai privilegiati. Si arrivò anche all’idea che la cucina fosse soggetta alla moda e che i gusti cambiano continuamente. Infatti, uno dei ricettari di Menon si chiamò appunto «La nouvelle cuisine», per marcare la differenza con quando era stato scritto e cucinato prima.
In Francia nel Settecento si scrive, si parla, si discute di cucina come mai prima di allora. Ma non cambia solo lo stile culinario e la figura del cuoco: cambia anche il significato che si dà al modo di mangiare e si comincia ad avere una visione «politica» del cibo. La dieta dell’epoca si basava soprattutto su due alimenti principali: il pane e la carne. E ambedue cominciarono a scarseggiare nel XVIII secolo per le classi inferiori, mentre le classi superiori continuavano ad averne in abbondanza. I filosofi presero ad attaccare le abitudini alimentari delle classi superiori, sapendo che ciò non poteva esporli ad alcuna ritorsione. Mandeville, Offray de la Mettrie, Rousseau, Diderot (che non erano affatto vegetariani!) scrissero che cibarsi di carne rendeva feroci come le belve, e difesero appassionatamente i bovini e gli ovini, che servono l’uomo e lo nutrono, per poi essere divorati senza alcuna riconoscenza. Era una trasparente metafora delle classi lavoratrici, sfruttate senza pietà per far vivere nell’abbondanza i «privilegiati». Per la prima volta nella storia moderna si attaccò il modo di mangiare per portare in realtà un attacco al sistema. Quindi se a tavola nacque l’idea che tutti avevano diritto a mangiar bene, a tavola nacque anche l’idea che la lotta al sistema cominciava dal come si sceglieva di mangiare. Non a caso, venendo a tempi molto più recenti, la macrobiotica si diffuse in Europa dopo il ’68 e – come le mode vegane, fruttariane, respiriate… – si oppone ai metodi «industriali» applicati all’agricoltura e all’allevamento, considerando lo sfruttamento del suolo e degli animali analogo allo sfruttamento umano, perciò condannabile e nefasto per il pianeta.