Delle migliaia di iscrizioni latine che si conoscono, solo due provengono sicuramente dal territorio dell’Urbe. Quali certezze esistono sull’idioma dei romani?
di Leandro Sperduti da Tempi del 31 marzo 2017
Di tutte le lingue cosiddette “morte” il latino è senza dubbio quella più “viva”, studiata da milioni di persone in tutto il mondo e considerata addirittura idioma ufficiale dalla Chiesa cattolica. Ovunque è ritenuta la lingua effettiva dell’antichità romana, simbolo stesso della sua storia e cultura fin dall’età più antica. Alla sua origine, però, c’è un mistero ancora irrisolto e spesso ignorato. Delle centinaia di migliaia di iscrizioni latine che si conoscono, sparse in un territorio che va dalla costa dell’Atlantico al mar Caspio e del Baltico al Sahara, meno di una decina sono antecedenti al III secolo a.C. e di queste solo due provengono sicuramente dal territorio di Roma. Sulle altre, ritrovate spesso in circostanze mai del tutto chiarite o alquanto frammentarie, è stato perfino sollevato il dubbio dell’autenticità. Questo è tanto più sorprendente se si considera che, per lo stesso periodo di riferimento, si contano diverse migliaia di iscrizioni redatte in etrusco e alcune di queste rinvenute nella stessa città di Roma. Eppure, i secoli che vanno dall’VIII al III a.C., sono tra i più importanti della storia romana, segnati politicamente dalla lunga fase monarchica, dal passaggio alla repubblica e dalle secolari vicende belliche contro i popoli latini e contro i sanniti, fino al primo scontro con Cartagine. Come è possibile che questa complessa stagione storica non abbia prodotto una quantità di documenti scritti pari a quella dei greci o almeno dei vicini etruschi?
Alcuni testi politici e religiosi di cui abbiamo notizia per il periodo arcaico, come le leggi delle XII Tavole o i rituali dei collegi sacerdotali, ci sono stati trasmessi infatti solo da scrittori o testi epigrafici di epoche successive, anche di molti secoli. Anche in ambito letterario, del resto, non esistono autori antecedenti allo stesso periodo e i primi di cui abbiamo notizia, Livio Andronico, Nevio ed Ennio, sono traduttori dal greco o poeti.
Sembra quasi che per il primo periodo della loro storia i romani non parlassero latino o che, comunque, questa lingua fosse limitata solo ad alcuni ambiti sociali e culturali, magari quello religioso e giuridico, e dunque appannaggio solo di certi gruppi di popolazione o ceti. Alcuni indizi sembrano confermare questa interessantissima e ardita ipotesi.
Tra i pochissimi documenti del latino arcaico c’è il celeberrimo cippo del Lapis Niger, una blocco di pietra recante una lex sacra del VI secolo a.C. e piantato nel mezzo del Foro Romano. Per più di sei secoli questo monumento è rimasto sotto gli occhi di tutti, attirando l’attenzione di antichi storici e letterati, da Dionigi d’Alicarnasso a Festo, eppure nessuno di loro vi ha riconosciuto un testo in latino, né è sembrato comprendere il significato dell’iscrizione. Possibile che una forma arcaica della loro lingua fosse per loro addirittura inintelligibile?
Tra le più antiche forme di teatro popolare, inoltre, c’erano i cosiddetti fescennini, rappresentazioni rustiche di carattere volgare e grottesco originarie dell’Etruria e recitate in lingua, eppure di amplissima diffusione. Ci sono poi le testimonianze offerte dagli storici, dove ogni romano, soldato, servo o donna che fosse, appare discutere normalmente con qualunque re o comandante etrusco senza l’ausilio di interpreti.
Il ripudio degli etruschi
A questo punto la questione linguistica degli antichi romani si fa alquanto complessa, almeno per ciò che riguarda i primi cinque secoli della loro storia. Come molte altre popolazioni italiche di origine indoeuropea, infatti, essi appartenevano linguisticamente al gruppo detto osco-umbro e presentavano affinità sia con i vicini sabini che con gli osci della Campania. La loro stretta relazione con gli etruschi, di cui subirono l’influenza culturale e perfino il dominio, li indusse però ad adottarne probabilmente la lingua, oltre che la forma di scrittura, come sembrano confermare sia i rinvenimenti epigrafici che il mantenimento di molte parole etrusche nel latino dei secoli successivi. L’idioma latino originario non venne comunque dimenticato ma rimase forse relegato al culto fino al III secolo a.C., quando fu recuperato e utilizzato sistematicamente in ogni ambito, forse per la precisa volontà di prendere le distanze dal mondo etrusco che Roma considerava ormai nemico. Secondo lo stesso principio, del resto, anche molte leggende legate alle origini della romanità abbandonarono i loro presupposti etruschi rivolgendosi verso la cultura latina (come nel caso di Romolo, che si cominciò a considerare nipote del re di Alba Numitore, anziché di re Tarchezio, dal nome più evidentemente etrusco).
Ma in ogni caso l’affermazione del latino non fu mai totale. C’è da pensare che i romani non si riconoscessero completamente nella loro lingua ufficiale, cui mantennero sempre il nome di “latino”, legandola cioè a una etnia a cui si sentirono legati ma che considerarono sempre ostile o almeno altro da sé. Questo spiegherebbe anche la loro scarsa propensione nell’imporre un’uniformità linguistica nel vastissimo impero che andranno costituendo nella loro storia più che millenaria.
Un programma preciso?
A differenza di tutti gli altri popoli, infatti, i romani mantennero un tendenziale bilinguismo, consentendo che in tutta la parte orientale dei loro domini si conservasse l’uso della lingua greca, anche nelle istituzioni. Nella stessa Roma il greco rimase diffusissimo perfino all’interno della realtà domestica e non solo in famiglie di origine orientale.
Anche a seguito della sua diffusione in molte province dell’impero, comunque, il latino subì forti localizzazioni assumendo pronunce molto differenti in base alle precedenti realtà linguistiche ed etniche. Il suo impianto non fu mai totale né radicale, tanto è vero che, nonostante più di mille anni di presenza romana, forti tracce delle lingue locali antecedenti al latino sono rimaste ben evidenti nei dialetti e negli idiomi delle regioni che fecero parte del mondo romano. E che dire della relativa velocità con cui, nell’alto Medioevo, l’uso del latino venne pressoché dimenticato quasi in tutta l’Europa e nella stessa Roma in favore del greco bizantino?
Alla luce di queste considerazioni bisogna forse rivedere l’idea che abbiamo del latino e del suo peso nell’ambito della civiltà romana. C’è inoltre da chiedersi quanto dell’importanza che, per secoli, gli abbiamo tributato non sia piuttosto il retaggio di un preciso programma culturale o addirittura politico promosso nel Medioevo dal Sacro Romano Impero germanico e dalla Chiesa, che proprio della riaffermazione della lingua latina fecero una delle loro più importanti dichiarazioni di identità, mantenendone l’uso e lo studio fino a oggi… con buona pace di Cicerone e Quintiliano.
Alcuni testi politici e religiosi di cui abbiamo notizia per il periodo arcaico, come le leggi delle XII Tavole o i rituali dei collegi sacerdotali, ci sono stati trasmessi infatti solo da scrittori o testi epigrafici di epoche successive, anche di molti secoli. Anche in ambito letterario, del resto, non esistono autori antecedenti allo stesso periodo e i primi di cui abbiamo notizia, Livio Andronico, Nevio ed Ennio, sono traduttori dal greco o poeti.
Sembra quasi che per il primo periodo della loro storia i romani non parlassero latino o che, comunque, questa lingua fosse limitata solo ad alcuni ambiti sociali e culturali, magari quello religioso e giuridico, e dunque appannaggio solo di certi gruppi di popolazione o ceti. Alcuni indizi sembrano confermare questa interessantissima e ardita ipotesi.
Tra i pochissimi documenti del latino arcaico c’è il celeberrimo cippo del Lapis Niger, una blocco di pietra recante una lex sacra del VI secolo a.C. e piantato nel mezzo del Foro Romano. Per più di sei secoli questo monumento è rimasto sotto gli occhi di tutti, attirando l’attenzione di antichi storici e letterati, da Dionigi d’Alicarnasso a Festo, eppure nessuno di loro vi ha riconosciuto un testo in latino, né è sembrato comprendere il significato dell’iscrizione. Possibile che una forma arcaica della loro lingua fosse per loro addirittura inintelligibile?
Tra le più antiche forme di teatro popolare, inoltre, c’erano i cosiddetti fescennini, rappresentazioni rustiche di carattere volgare e grottesco originarie dell’Etruria e recitate in lingua, eppure di amplissima diffusione. Ci sono poi le testimonianze offerte dagli storici, dove ogni romano, soldato, servo o donna che fosse, appare discutere normalmente con qualunque re o comandante etrusco senza l’ausilio di interpreti.
Il ripudio degli etruschi
A questo punto la questione linguistica degli antichi romani si fa alquanto complessa, almeno per ciò che riguarda i primi cinque secoli della loro storia. Come molte altre popolazioni italiche di origine indoeuropea, infatti, essi appartenevano linguisticamente al gruppo detto osco-umbro e presentavano affinità sia con i vicini sabini che con gli osci della Campania. La loro stretta relazione con gli etruschi, di cui subirono l’influenza culturale e perfino il dominio, li indusse però ad adottarne probabilmente la lingua, oltre che la forma di scrittura, come sembrano confermare sia i rinvenimenti epigrafici che il mantenimento di molte parole etrusche nel latino dei secoli successivi. L’idioma latino originario non venne comunque dimenticato ma rimase forse relegato al culto fino al III secolo a.C., quando fu recuperato e utilizzato sistematicamente in ogni ambito, forse per la precisa volontà di prendere le distanze dal mondo etrusco che Roma considerava ormai nemico. Secondo lo stesso principio, del resto, anche molte leggende legate alle origini della romanità abbandonarono i loro presupposti etruschi rivolgendosi verso la cultura latina (come nel caso di Romolo, che si cominciò a considerare nipote del re di Alba Numitore, anziché di re Tarchezio, dal nome più evidentemente etrusco).
Ma in ogni caso l’affermazione del latino non fu mai totale. C’è da pensare che i romani non si riconoscessero completamente nella loro lingua ufficiale, cui mantennero sempre il nome di “latino”, legandola cioè a una etnia a cui si sentirono legati ma che considerarono sempre ostile o almeno altro da sé. Questo spiegherebbe anche la loro scarsa propensione nell’imporre un’uniformità linguistica nel vastissimo impero che andranno costituendo nella loro storia più che millenaria.
Un programma preciso?
A differenza di tutti gli altri popoli, infatti, i romani mantennero un tendenziale bilinguismo, consentendo che in tutta la parte orientale dei loro domini si conservasse l’uso della lingua greca, anche nelle istituzioni. Nella stessa Roma il greco rimase diffusissimo perfino all’interno della realtà domestica e non solo in famiglie di origine orientale.
Anche a seguito della sua diffusione in molte province dell’impero, comunque, il latino subì forti localizzazioni assumendo pronunce molto differenti in base alle precedenti realtà linguistiche ed etniche. Il suo impianto non fu mai totale né radicale, tanto è vero che, nonostante più di mille anni di presenza romana, forti tracce delle lingue locali antecedenti al latino sono rimaste ben evidenti nei dialetti e negli idiomi delle regioni che fecero parte del mondo romano. E che dire della relativa velocità con cui, nell’alto Medioevo, l’uso del latino venne pressoché dimenticato quasi in tutta l’Europa e nella stessa Roma in favore del greco bizantino?
Alla luce di queste considerazioni bisogna forse rivedere l’idea che abbiamo del latino e del suo peso nell’ambito della civiltà romana. C’è inoltre da chiedersi quanto dell’importanza che, per secoli, gli abbiamo tributato non sia piuttosto il retaggio di un preciso programma culturale o addirittura politico promosso nel Medioevo dal Sacro Romano Impero germanico e dalla Chiesa, che proprio della riaffermazione della lingua latina fecero una delle loro più importanti dichiarazioni di identità, mantenendone l’uso e lo studio fino a oggi… con buona pace di Cicerone e Quintiliano.