L’ultimo lavoro dello storico Alessandro Barbero “Lepanto: la battaglia dei tre imperi” (Laterza) è un’opera di accuratezza e precisione davvero rare: più di 600 pagine ricchissime di dati e di notizie, con una bibliografia smisurata, adeguata al “mare magnum” delle fonti esaminate e con il pregio di restituire alla logistica il ruolo di vera “regina delle battaglie”. Anche nell’ambito dell’interpretazione storiografica il volume è indubbiamente nuovo, a partire dal sottotitolo “la battaglia dei tre imperi”.
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di Alberto Leoni da La Bussola Quotidiana del 24 dicembre 2010
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“Niente ossequio – commenta Cardini – al solito trionfalismo della ‘vittoria dell’Occidente’ ma serio e rigoroso richiamo alle forze concretamente in gioco – l’Impero ottomano, la Spagna asburgica, la Repubblica di San Marco – che si contendevano l’egemonia mediterranea.” Una delle conclusioni cui giunge Barbero è che Lepanto non salvò l’Occidente. “Anche se avesse vinto – aggiunge Barbero – il kapudan Pascià avrebbe riguadagnato il porto e smobilitato la flotta.” Inoltre gli ammiragli della Lega erano sicuri di vincere, dato che non esisteva una superiorità ottomana sul mare.
Si tratta di affermazioni ben documentate ma che non tengono conto delle disastrose sconfitte subite da spagnoli e veneziani a Prevesa (1538) Algeri (1541) e Djerba (1560).
Come ben documenta Barbero, armare un flotta era un compito immane in cui venivano investite le risorse di interi continenti. È per questo motivo che i cristiani temevano una grande battaglia navale: il mare, la “fortuna imperatrix mundi”, le beghe tra principi potevano causare una sconfitta catastrofica quanto definitiva. Il vero miracolo di Lepanto fu che l’alleanza fra Venezia e Spagna abbia tenuto almeno fino a un minuto dopo la vittoria: merito dell’opera diplomatica di papa Pio V e se è vero che a Lepanto erano presenti tre imperi fu il papato ad avere un ruolo fondamentale.
Quanto alla minaccia turca nei confronti dell’Italia appare semplicistico liquidarla come un innocuo esercizio di ucronia. La flotta turca, nell’estate del 1571, avrebbe ben potuto conquistare Corfù. A quel punto – scrive il Barbero – “tutto diventava possibile perfino sbarcare in Italia e marciare su Roma”: e per ammiragli, generali e soldati turchi, la conquista dell’Urbe aveva un significato immenso, sia politico (Roma era la cosiddetta “Mela Rossa”) sia religioso.
La battaglia, infine, ebbe un esito non scontato e i turchi avrebbero potuto vincere se un’improvvisa bonaccia “insolita in quella stagione” non avesse loro impedito di far polpette dei cristiani prima che si disponessero in formazione.
Ciò che rese Lepanto davvero decisiva fu il fatto che i cristiani uccisero tutti i veterani catturati: marinai, nocchieri, arcieri, giannizzeri, professionisti quasi insostituibili. Lepanto può essere paragonata alla vittoria americana delle Midway, dove perì la gran parte degli esperti piloti dell’aviazione navale nipponica. La flotta giapponese inflisse ancora duri colpi agli Alleati ma l’esito della guerra del Pacifico era ormai deciso. Quasi allo stesso modo, dopo Lepanto, vi fu ancora una flotta ottomana ma che non fu più un pericolo strategico.
Perché allora “smitizzare” Lepanto? Probabilmente per l’abuso che se ne fa, per il fatto che si tende a utilizzare la Storia come una mazza ferrata, in chiave anti islamica: una “pietra dello scandalo” su cui inciampa il dialogo fra cristianesimo e islam, e che si è tentati di buttare da parte. Peccato che, in questo modo, il “passato non passi mai” anche perché, nella piazza di Le Castella, vicino a Capo Rizzuto, fa bella mostra di sé un busto del grande ammiraglio Ulugh Alì con una iscrizione in turco. Nessuno, infatti, chiederà mai alla Turchia di rinnegare un Barbarossa o un Dragut: a distanza di secoli, noi moderni possiamo permetterci una giusta cavalleria verso il nemico dei nostri avi, foriera, si spera, di una vera “paix des braves” fra civiltà coesistenti e diverse.
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Inserito su www.storiainrete.com il 7 gennaio 2011, festa della Bandiera Tricolore