Nell’agosto 1945, nelle ultime fasi del conflitto mondiale, in un incidente aereo perdeva «ufficialmente» la vita Subhas Chandra Bose, tra i leader più rappresentativi del movimento d’indipendenza indiano insieme al «Mahatma» Gandhi e al primo capo di governo dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru.
di Stefano Vecchia da Avvenire del 30 dicembre 2015
Le sue ceneri sono conservate in un tempio giapponese. Un patriota per molti, ma la cui immagine è stata gradualmente sbiadita dalla storiografia ufficiale legata a filo stretto al Partito del Congresso nazionale indiano, di cui Chandra Bose fu influente membro e anche presidente, per esserne poi espulso nel 1939. Cruciale il disaccordo con i compagni di impegno indipendentista sull’atteggiamento da tenere verso il potere britannico, a cui essi erano pronti a concedere collaborazione contro l’Asse in cambio dell’autodeterminazione successiva al conflitto.
Non così Subhas Chandra Bose, il cui patriottismo era diventato inconciliabile con la richiesta di coinvolgimento della colonia indiana in una guerra che – era evidente – Londra non poteva combattere da sola. Alla fine furono due milioni e mezzo gli indiani utilizzati dai comandi britannici sui vari fronti di conflitto, almeno 36.000 i caduti. Alla frettolosa uscita di scena degli inglesi nell’agosto 1947, con la divisione dell’ex colonia tra India e Pakistan segnata da massacri tra i più estesi e efferati della storia, Bose non doveva assistere. Se fosse morto oppure ancora vivo, è uno dei più appassionanti enigmi della storia indiana. Quello che la «Legione indiana» organizzata da Berlino indicò per la prima volta con l’appellativo di Netaji («nobile comandante»), aveva individuato nella collaborazione con Germania e Giappone la strada per la fine del potere coloniale. Per questo si era recato nella Germania nazista, dove aveva contribuito nel 1941 a fondare un «Ufficio per l’India» con l’intento di favorire la sollevazione anti-britannica e le operazioni militari tedesche nella sua terra, tentando prima di stringere alleanza con i giapponesi (allora in avanzata inarrestabile) e quindi dando vita nel 1943 al Governo provvisorio della libera India e all’Esercito nazionale indiano, che cercò appunto di aprire la strada all’invasione nipponica del subcontinente indiano attraverso le frontiere orientali.
Una personalità controversa, sulla quale è cresciuto un ‘giallo’ storico. L’apertura recente di alcuni archivi ufficiali nel Bengala occidentale, suo Stato nativo, ha infatti portato gli studiosi a accedere a documenti che sembrano provare che Chandra Bose non morì in un incidente aereo in Manciuria (o sopra Taiwan per alcune fonti) il 18 agosto 1945, ma continuò a vivere per anni all’estero, in particolare a Pechino, in circostanze note alla leadership indiana post-coloniale. A confermarlo, nel 70° anniversario della presunta morte di Bose, la signora primo ministro dello Stato indiano del Bengala occidentale, Mamata Banerjee, per la quale 64 lettere e altri documenti resi ora disponibili indicherebbero che il leader indipendentista sopravvisse ben oltre quanto finora creduto o suggerito.
Un nuovo dibattito, forse anche una rivalutazione della figura di Chandra Bose servirebbero all’agenda nazionalista delle parti oggi al potere, dopo avere strappato lo scorso anno al Congresso la quasi ininterrotta guida del Paese dall’indipendenza. L’attacco contro l’eredità del Congresso e la dinastia Gandhi-Nehru, di cui sono testimoni l’«italiana» Sonia Gandhi e il figlio Rahul, rispettivamente presidente e vice- presidente, è ormai diretto e senza esclusione di colpi. Detto questo, restano le lettere (in buona parte raccolte a Calcutta dal Netaji Research Bureau), gli archivi ufficiali e le speculazioni.
Conclusi nel 1974 con un sostanziale nulla di fatto i lavori di una commissione governativa guidata dal giudice G. D. Khosla e creata per indagare sulla scomparsa di Chandra Bose, il risultato dell’impegno di una nuova commissione attiva dal 1999 fu un rapporto consegnato al governo 10 anni fa, l’8 novembre 2005, e dapprima proposto per il dibattito parlamentare nel marzo 2006, poi ritirato senza alcuna spiegazione. In esso il giudice M. K. Mukherjee, responsabile del gruppo, chiariva che i dati raccolti segnalavano che Bose era stato segretamente avviato verso l’Unione sovietica con il consenso delle autorità giapponesi e che le ceneri conservate nel sacrario giapponese di Renkoji apparterrebbero a un soldato nipponico morto di crepacuore.
Dei 41 file d’archivio connessi alla scomparsa di Subhas Chandra Bose, solo due erano stati desecretati e consegnati alla commissione Mukherjee. Successivamente gli esecutivi a guida Congresso hanno sempre posto il veto su ogni informazione, avanzando ragioni di sicurezza nazionale o di buoni rapporti internazionali. Ma non è esclusa l’apertura di quello che potrebbe essere un nuovo capitolo della lunga vertenza sulla scomparsa di Chandra Bose, segnata – macchiata per molti – dall’accusa di anti-patriottismo, collaborazionismo e crimini di guerra. Alla fine, come sottolineato da un pronipote, «non ci sono informazioni certe su un comportamento criminale di Netaji e tutto è nato da una missiva di Jawaharlal Nehru al premier britannico Clement Attlee del 1948 che accennava a Bose come a ‘quel criminale di guerra’».