di Stenio Solinas – da Il Giornale.it del 22 gennaio 2012
Napoleone gettava corone alla famiglia e ai suoi soldati» commenterà con disprezzo Chateaubriand nel riassumere la logica militar-diplomatica del piccolo-grande còrso. Per certi versi, era una sorta di coazione a ripetere: ogni conquista obbligava a quella successiva, nel nome di un consolidamento che evitasse qualsiasi smottamento; ogni regno creato ex novo aveva bisogno di un regnante dello stesso tenore, e però in grado di rappresentare una nuova quanto indiscutibile legittimità, che altro non era se non quella incarnata, è proprio il caso di dire, dal suo cognome…
Nel suo Al cuore dell’Impero (Marsilio, pagg. 405, euro 18), Alessandra Necci ne offre un resoconto esemplare: «Giuseppe Bonaparte, in una prima fase re di Napoli, è divenuto sovrano di Spagna; Elisa ha ottenuto Lucca e Piombino, quindi altre città, infine è stata nominata granduchessa di Toscana; Luigi e Ortensia sono i reali di Olanda; Carolina e Murat hanno ricevuto i ducati di Berg e Clèves, successivamente sono diventati a loro volta sovrani del Regno di Napoli; Gerolamo e la moglie hanno avuto la Westfalia; Eugenio de Beauharnais è viceré d’Italia»…
Era un clan, in sostanza, a governare l’Europa che il vento della Rivoluzione francese aveva scosso da cima a fondo, e nel suo essere còrso per nascita, italiano per sangue, era il clan per eccellenza, amorevole e collerico, umile e però orgoglioso, sospettoso verso ogni allargamento esterno, geloso di ogni ineguaglianza interna. I Bonapartidi, insomma, esemplari nel loro ruolo di barbari a petto dell’Ancien Régime, ma impreparati e/o incapaci di divenire i Borbone o gli Asburgo del futuro. Il primo a esserne consapevole era, del resto, lo stesso Napoleone: «Hanno dei reami che alcuni di loro non sanno guidare, altri compromettono scimmiottandomi. Dei principi non hanno che la sciocca vanità e nessun talento, nessuna energia. Bisogna che governi per loro». In meno di un quindicennio, verrà giù tutto, compresa la solidarietà clanica: il regno di Napoli di sua sorella Carolina e di suo cognato Murat gli si volterà contro…
A questo incredibile impasto di inadeguatezza e supponenza, vanità e ingordigia, ma anche generosità e fedeltà, il libro di Alessandra Necci offre un’interessante chiave di lettura messa in evidenza dal suo stesso sottotitolo: «Napoleone e le sue donne fra sentimento e potere». Sono infatti la madre, le sorelle, le mogli e le amanti a raccontare al loro meglio il peggio del clan prima ricordato. In fondo, la straripante personalità maschile di Napoleone oscura di per sé i restanti fratelli. Per certi versi, ne sono come una variante mal riuscita, un succedersi di prove d’autore mentre intanto l’unico stampo originale giunge alla sua piena fusione. Luciano, che ha sei anni di meno e che è il vero artefice del 18 Brumaio che trasforma il generale Napoleone in Primo Console, non andrà oltre un principato, quello di Canino, peraltro frutto della benevolenza papale. Ha rifiutato la politica matrimoniale che il fratello imperatore avrebbe voluto imporgli e si è ritrovato privato di ogni beneficio: «Alla mia famiglia appartengono solo coloro che io riconosco!». Giuseppe, che è il maggiore, cambierà due volte di regno, da Napoli alla Spagna, senza mai regnare veramente. Dopo Waterloo emigrerà negli Stati Uniti. Luigi, il terzogenito, sarà a meno di trent’anni re d’Olanda, proverà a esserlo sul serio, dovrà ingoiare l’annessione dell’Olanda alla Francia, finirà esule a Roma. In compenso, il futuro Napoleone III è figlio suo…
I maschi di famiglia, insomma, sono canne al vento, sempre piegate da quello che il solito genio di Chateaubriand definisce «il più potente soffio di vita che animò l’argilla umana»… Le femmine no, sono tutt’altro, usano altre armi e altre seduzioni, trasformano le loro debolezze in punti di forza, non si perdono dietro stupidi orgogli virili… Alessandra Necci dedica loro sette bei ritratti, a partire da quello della madre, Letizia Ramolino Bonaparte, ovvero la Grande Mère, che resterà al fianco di Nabulio, come lo chiamava da piccolo, sino alla fine, e chiudendo con Maria Luisa d’Asburgo, che ne sarà la compagna per non più di quattro anni, gli sopravviverà di un quarto di secolo, si risposerà, verrà seppellita a Vienna, nella cripta dei Cappuccini, come l’Asburgo che era sempre stata. Rispetto alle altre è quella con meno personalità e meno cuore.
Poiché esaminarle tutte non è, per motivi di spazio, possibile, per Giuseppina, la moglie ripudiata, ci accontenteremo di dire che subisce la legge del contrappasso. A lungo Napoleone si strugge e soffre per i suoi tradimenti e i suoi trionfi mondani, la più Merveilleuse delle Merveilleuses del suo tempo, quella che, come la rimprovererà, ha fatto «del vincitore di Arcole un marito di Molière», un povero cornuto, insomma… Poi sarà lui a divenire indifferente e lei a corrergli dietro, ma ormai è troppo tardi. Rimarranno amici, resterà «la donna che ho più amato».
Di Letizia Ramolino, l’unica donna del clan a non aver mai perso la testa, l’unica davanti alla quale Napoleone abbia sempre abbassato la propria, vale la pena sottolineare che il suo attaccamento verso quest’ultimo sfocerà negli anni di Sant’Elena in una sorta di negazione della realtà: per volontà divina, gli angeli lo hanno fatto evadere dall’isola e al suo posto c’è un sosia… Ci vorranno le urla e le scenate della figlia Paolina per riportarla alla ragione… Di Elisa Baciocchi resta nella mente la perfida definizione di Talleyrand: «la Semiramide del Serchio», visto il suo tentativo di trasformare Lucca nelle Tuileries. Di Carolina Murat, la sorella che per seguire le ambizioni del marito arriva a tradire il fratello, rimane la rampogna materna: «Quel bellimbusto che si veste come un pappagallo ha tradito l’imperatore nel momento del bisogno. E tu dov’eri? Che cosa hai fatto?».
Ho lasciato fuori da questa cavalcata due nomi: Paolina Borghese, Maria Walewska. Erano bellissime, non erano stupide, avevano cuore. Della prima. La Necchi riporta il giudizio di uno dei suoi biografi, Antonio Spinosa, «un personaggio sadiano», che oltre a essere infelice, è stupido. Non c’era in lei nulla della psicopatologia del marchese de Sade, tutto invece di un epicureismo senza dolore. La statua di Canova che la celebra come Venere vincitrice non è solo un capolavoro, ma la testimonianza di una grazia che vince il tempo, i suoi gioielli venduti per aiutare il sovrano sconfitto, il suo essergli a fianco nell’esilio sull’isola d’Elba, i suoi piani per farlo evadere da quella di Sant’Elena testimoniano che prima di essere l’imperatore Napoleone era il fratello più amato. Nelle circostanze più drammatiche, scrive giustamente la Necci, «è stata capace di dare il meglio di sé».
Di Maria Walewska, oltre un bel ritratto ottocentesco di François Gérard, rimane quella straordinaria pellicola che è Conquest, del 1937, con Greta Garbo a prestarle il suo fisico e il suo volto. Fu il film più costoso dell’epoca, e mai la Garbo fu così meravigliosamente anemica, pallida, fragile. Nella prima scena affrontava così i cosacchi che le invadevano la casa, nell’ultima affiorava la stessa coraggiosa fragilità dietro il suo addio a Napoleone, l’attore Charles Boyer. Si disse allora che nel film la parte del leone la faceva quest’ultimo, come nella realtà del resto. La Maria Walewska della storia era stata un po’ come la Boule de suif dell’omonimo racconto di Maupassant, una preda da offrire al soldato vincitore per placarlo, e del resto Napoleone era stato esplicito al riguardo: «Il vostro Paese mi sarà molto più caro, se avrete compassione del mio povero cuore»… Gli darà un figlio, gli resterà fedele, morirà prima di lui, ad appena 31 anni…
Dopo aver letto la sceneggiatura, la Garbo si lamentò: a chi diavolo poteva interessare? L’unica modifica che però chiese aveva a che fare con la moda: «Ho una passione per i pantaloni. Visto che ve lo dico da subito, si può inserire una piccola scena in cui li indosso, magari Maria Walewska che va nella tenda di Napoleone travestita da militare, o qualcosa del genere». Fu accontentata. Un soldato con il volto di alabastro.