Il tenentino che perse la guerra in Vietnam ha aspettato quarantun anni per chiedere scusa, forse un po’ troppo tempo, ma finalmente anche per lui il sollievo della confessione è arrivato. Compiuti i 66 anni, l’età dei bilanci e dei fantasmi, William Calley, il tenente di fanteria che guidò la Compagnia “C” al massacro di un intero villaggio vietnamita per aumentare il “body count”, il bottino dei morti come pretendevano i generali, ha chiesto scusa. Ha confessato di non poter più vivere con il ricordo dell’orrore, di quelle donne violentate e mitragliate, di quei bambini trapassati alla baionetta, dei vecchi consumati dai lanciafiamme abbracciati ai piccoli che cercavano di proteggere e di sperare, nel pubblico pentimento, qualche sollievo dagli spettri che lo assediano, dal 16 marzo del 1968.
Vittorio Zucconi su “Repubblica” del 23 agosto 2009
Nessuno, non i generali a quattro stelle, non i presidenti e neppure gli strateghi nemici come il generale Giap, fece quello che il tenente William Laws Calley fece a 25 anni per mobilitare il disgusto nazionale per quella che, dopo di lui, sarebbe per sempre diventata “una sporca guerra”. Fu colui che scosse l’America dalla certezza della propria eccezionalità e della propria innocenza e la mise di fronte alla realtà atroce di quella presunta missione civilizzatrice.
Calley ebbe la sfortuna di avere un commilitone che sentì prima di lui il bisogno di parlare, di cercare un giornalista coraggioso, Seymour Hersh, disposto a fare quello che né i comandi, né il Parlamento americano, avevano osato fare: raccontare quello che era accaduto nel villaggio di My Lai, un nome che suona beffardamente in inglese come “la mia menzogna”, in quel marzo del 1968.
Quando Calley, ufficialetto di complemento prodotto in fretta e furia dopo appena 16 settimane di corso, fu inviato a My Lai, erano passate poche settimane dall’offensiva del capodanno buddista, il Tet. La macchina militare americana, all’apice dei 500 mila soldati, aveva sofferto non una sconfitta, ma un’umiliazione, e il mito della invincibilità, della “luce alla fine del tunnel” si era frantumato in patria, proprio mentre esplodeva il ’68. Calley, e i suoi soldati, non cercavano vittorie, cercavano vendetta per i compagni uccisi, sfogo per la loro esasperazione, e corpi da contare, per concludere la missione e tornare in fretta al mondo, a casa. Si chiamavano operazioni “cerca e distruggi”, e la Compagnia C dell’Undicesima Brigata di fanteria leggera sbarcò dai proprio elicotteri per distruggere.
Non fu mai stabilito quanti esseri umani furono uccisi, perché nella giungla tropicale i corpi si decompongono in fretta e nelle capanne incendiate non arrivò nessuna polizia scientifica a frugare nei resti. Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 300, come disse qualche testimone, 500 secondo il piccolo museo memoriale costruito nel villaggi.
Ma nessuno di loro, neppure a guerra finita, risultò essere un guerrigliero, un “quadro” vietcong, un agente del Nord comunista. Per tre ore, lui – Calley detto “Rusty”, il rugginoso per le efelidi infantili, un ragazzo qualsiasi che si era arruolato soltanto perché la sua auto si era guastata davanti al centro di reclutamento e, disperato, senza soldi, studi e futuro, era entrato – i suoi soldati, anche loro giovanotti qualsiasi pescati nella lotteria della leva militare, divennero quello che la guerra produce sempre, secondo l’ammonimento del grande generale nordista e distruttore di Atlanta, William Tecumseh Sherman: demoni.
Furono necessari due anni, lo scoop del giornalista Seymour Hersh che lacerò il sudario di silenzio costruito dal governo attorno a My Lai, perché il processo fosse celebrato, con una sentenza che incendiò l’America. I pacifisti furono sconvolti dalla condanna all’ergastolo del solo Calley, e dalla assoluzione del superiore diretto che lo aveva inviato in missione, il capitano Medina, quando emersero immagini di bambini ripescati dalle fosse con una “C” incisa nel petto dalle baionette. I buoni patrioti furono altrettanto sconvolti da una condanna così pesante per “crimini di guerra” contro un soldato colpevole, secondo loro, soltanto di avere – antica storia – obbedito agli ordini. Si sollevarono per lui governatori nel Sud, tra i quali anche un futuro presidente, Jimmy Carter. E Nixon commutò la pena dall’ergastolo a soli due anni di arresti domiciliari, nel 1974, quando ormai la guerra era finita.
Finita per gli altri, ma non per il tenente figlio di un rigattiere della Florida, divenuto criminale di guerra. Quando tornò a piede libero, lavoricchiò come commesso nel negozio del suocero, poi come venditore di polizze. Sempre con il sabba di quei cadaveri che neppure lui sapeva quanti fossero, perché la conta dei cadaveri vietnamiti era notoriamente fasulla e gonfiata, fino alla sera di giovedì scorso, quando si è alzato a parlare a una cena del club dei Kiwanis per chiedere, 41 anni dopo, “perdono” e ammettere tutto. “Io lo perdono anche – ha detto alla Associated Press il vecchietto che fa da guardiano al museo del massacro in Vietnam ed ebbe una sorella nella fossa – ma deve venire qui, a My Lai, e chiederlo a noi”.
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Inserito su www.storiainrete.com il 24 agosto 2009