di Alberto Scuderi per “Storia in Rete” del 6 dicembre 2024
Per raccontare il percorso degli umani su questa terra sono stati utilizzati molti espedienti, ognuno più o meno utile ad inquadrare le tracce del nostro stare al mondo. I luoghi che hanno a che fare con il sacro, pensiamo alle grandi cattedrali della cristianità ma non solo, in questo senso sono uno straordinario «centro primigenio di vita e di civiltà».
Rappresentano, spesso dall’alto della loro imponenza, l’identità, la patria e il rifugio di tutti gli uomini, perché in fondo non «saremmo ciò che siamo, senza di esse». A cimentarsi sia con la genesi – intesa come materiali, tecniche e stili – che con l’immensa portata simbolica delle chiese che hanno forgiato l’Occidente, nel momento in cui questi ha definito la propria singolarità culturale e religiosa, cioè a dire il Medioevo, ci ha pensato di recente lo storico Marco Meschini nel bellissimo Le pietre e la luce (Sellerio, pp. 232, € 18,00 – riedizione di un testo del 2011). Un libro non solo di storia dell’arte o dell’architettura, come si potrebbe immaginare, ma un vero e proprio viaggio dell’ingegno umano alle prese con il divino, tra vestigia passate mai come oggi sotto attacco, dunque da difendere e riscoprire.
Tale assunto è ancora più vero in questi giorni, nei quali Notre Dame, restaurata a tempo di record, finalmente riaprirà al pubblico dopo l’incendio del 2019 – il 7 dicembre, per l’esattezza, con la consacrazione dell’altare maggiore -, un evento straordinario che rimanda pertanto alla necessità politica e morale di non fare di questi monumenti solo delle mete turistiche, ma qualcosa di vivo e fondante per le comunità cui si rivolgono. Non a caso, nel prologo, l’autore pone al centro della sua riflessione proprio il miracolo della Resurrezione, tanto da definire ciò che rappresentano le cattedrali: «[…] uno sguardo possibile sul mondo e i suoi abitanti, un dire sommesso e possente che ogni figlio di donna è degno di entrare e udire la Voce, d’esser bagnato e ritessuto di Luce, lui che è figlio della Luce, e toccare con mano i segni dei chiodi nella Carne risorta». Un atto d’amore che si rinnova di continuo, ad un tempo causa ed effetto di quel viaggio verso l’alto cui si accennava poc’anzi. Il quale, seguendo le tappe indicate da Meschini, non può che partire dalla “madre di tutte le cattedrali”, ovvero San Giovanni in Laterano (311- 312), la residenza ufficiale dei pontefici fino alla svolta avignonese del 1309 e sede dell’intronizzazione che, insieme all’incoronazione in San Pietro (1506 – 1626), costituiva il momento chiave della cerimonia d’insediamento di ogni papa; e terminare con l’abbazia di Saint Denis (1137) – ancora Parigi -, con il suo stile gotico che «non è uno stile ma un modo di pensare e, insieme, un universo di simboli», centro ideale del Regno di Francia, soprattutto grazie all’influenza di Sugero, abate, teologo e reggente di Luigi VII durante la seconda crociata del 1147 – 1148.
In mezzo, un itinerario ricchissimo che comprende la prestigiosa arte musiva, quella di mosaici in grado di abbagliare la vista, come il poeta Paolo Silenziario diceva della cupola bizantina di Santa Sofia (532 – 537), discorso valevole tanto per la ravennate San Vitale (532 – 547) quanto per Sant’Ambrogio a Milano (379 – 389). I tesori di cui le chiese del Medioevo sono da sempre ricolme, oggetti liturgici per i sacramenti, tessuti e indumenti, libri, calici e patene, fino alle reliquie dei santi e di Cristo stesso, spoglie mortali utili a mediare con l’aldilà e, al contempo, dispositivi necessari nel processo di pubblicizzazione della Chiesa verso i propri fedeli. Infine, le molte vicende riguardanti i pellegrini e gli scultori, i committenti e il pubblico, i cantieri e i costruttori, la musica – ottima la nota in chiusura di Antonio Chemotti sul “suono” della cattedrale – e le immagini. A tal proposito, proprio in ambito artistico, uno dei capitoli più interessanti del libro è dedicato a coloro che concretamente pensarono e innalzarono le cattedrali. Non esattamente degli “artisti”, piuttosto degli “artefici”, degli individui più legati alle arti meccaniche che a quelle liberali (filosofia e teologia in testa). Slegati dall’immaginario del «genio solitario» cui siamo tanto abituati e liberi dalle ansie dell’autoaffermazione narcisistica, la loro era un’opera improntata a rendere un servizio nei confronti del prossimo, con una visione dell’arte «come mestiere e offerta, come tecnica e lode, come ringraziamento». Ne sono un esempio i “maestri campionesi”, da Campione d’Italia, attivi sotto la diocesi di Como tra il XII e il XIV secolo e protagonisti di opere eccezionali in città quali Modena, Milano, Monza, Varese, Lugano e altre ancora. Si pensi ad Anselmo (1130 – 1185), «responsabile del cantiere del duomo di Modena e autore del celebre pontile interno», a Bonino, «che impostò e parzialmente eseguì il monumento a Barnabò Visconti (ora presso il Castello Sforzesco di Milano) e l’arca di Cansignorio della Scala a Verona, a Matteo, artefice della «facciata a bande bianche e verdi (insieme ad altre parti) del duomo di Monza», solo per citarne alcuni.
Ciascuno legato all’altro in confraternite e corporazioni, cioè associazioni di persone che svolgevano lo stesso mestiere in un contesto prettamente cittadino, di cui la cattedrale era parte essenziale e cuore identitario. In seguito, quando le confraternite stesse, oltreché creare, ordineranno opere d’arte, diventando committenti a tutti gli effetti, l’artifex medievale compirà un altro decisivo passo nel processo di riconoscimento del proprio valore sociale ed economico. Sempre in un’ottica di caritas, tuttavia, in cui «la bellezza si unisce alla semplice gioia di vivere» e il proprio lavoro è innanzitutto «una scommessa positiva sulla vita», uno sguardo al futuro ben oltre il limite estremo dell’esistenza terrena. Fosse anche solo per questo modo di intendere la vita e il lavoro, non si dovrebbe mai più definire il medioevo come un’epoca buia. Un falso mito tanto duro a morire che il libro di Meschini ci esorta ad accantonare senza indugio, provando a fare un gesto semplicissimo e rivoluzionario: quello di entrare in una cattedrale, non importa quale, e fare propri «l’ordine del cosmo e la mente di Dio», i frutti invisibili della sua luce, delle sue pietre.