Portarsi via un quadro o una scultura non è solo un furto: è un atto di violenza fatto alla storia di una regione, di una nazione, di un popolo. E se il ladro non è un singolo furfante ma è un esercito invasore o un’organizzazione criminale allora la questione riguarda, molto prima che l’economia, la politica culturale. Una questione che, da ogni punto lo si guardi, interessa moltissimo l’Italia. E che un libro da poco pubblicato rilancia
di Giovanni Vasso da Storia in Rete 169
Ce lo hanno detto talmente tante volte che abbiamo finito per crederci: l’arte è uno straordinario strumento per redimere le coscienze, per ispirare buoni sentimenti e indurre la gente a migliorarsi, a essere più buona. Per fortuna che è arrivato un libro a smontare un luogo comune che non avrebbe di certo sfigurato in quella deliziosa galleria degli orrori che fu il «Catalogo delle Idee Chic» di Gustave Flaubert. «Capolavori rubati» (Skira, 173 pagine, 19 euro) del critico d’arte Luca Nannipieri mette in fila i casi più clamorosi di furti, delitti, contrabbando, razzie, sopraffazioni, violenze legati al mondo della bellezza. Non si tratta, però, di un campionario di ritagli di cronaca nera. È un’indagine filosofica molto più che giornalistica che risponde a una domanda alquanto scomoda oggi, in tempi che pretendono d’avere una risposta già pronta, assodata e inequivocabile su ogni caso possibile e immaginabile. Che rapporto c’è tra l’arte e l’uomo o, meglio ancora: perché pur di riuscire a mettere le mani sulla bellezza si scatenano guerre, si compiono delitti?
Dubbi, per Nannipieri, non ce ne sono poi tanti. L’arte descrive l’identità di un popolo, di una nazione. Riprende le considerazioni di Alois Regl, storico dell’arte austriaco che all’inizio del XX secolo scrisse ne «Il Culto moderno dei Monumenti»: «il senso e il significato dei monumenti non dipendono dalla loro destinazione originale ma siamo piuttosto noi, soggetti moderni, che li attribuiamo a essi». Si pensi al Colosseo: ci fa sinceramente orrore riconoscere che lì dentro venivano ammazzati degli uomini perché la folla ne godesse eppure (almeno finora…) nessuna voce s’è alzata a chiederne l’abbattimento. I monumenti, dunque, sono ciò che riconosciamo come bellezza e che, perciò, ci descrivono nelle nostre tensioni più alte. Ci rappresentano. Noi «siamo» il nostro patrimonio artistico. Per questo ci infuriamo, quasi irrazionalmente, quando i Tg raccontano dei turisti stranieri che fanno la pipì in strada a Venezia o dei tifosi olandesi che deturpano la fontana del Bernini a Roma. Per questo, oggi, continuiamo a chiedere – sbagliando perché almeno quella non l’hanno rubata… – che i francesi si degnino di «restituirci» la Gioconda di Leonardo da Vinci. [di questo tema «Storia in Rete» si è già occupata con un lungo articolo di Massimo Centini sul numero 164-165, NdR].
Proprio il caso del celeberrimo dipinto leonardesco è tra quelli paradigmatici citati e affrontati da Nannipieri. Il fascino della Monna Lisa era, fino all’inizio del secolo scorso, apprezzato solo da artisti, poeti, letterati: insomma da quel milieu intellettuale franco-europeo che aveva gli strumenti per lasciarsi incantare da uno dei sommi esempi del cosiddetto magnetismo che Leonardo infondeva ai suoi quadri. Il mito nasce col furto dell’opera, avvenuto il 21 agosto del 1911 al museo del Louvre. Un colpo beffardo che produce una ferita profondissima nei francesi: «Come è stato possibile?» titolano i giornali, al di là e al di qua delle Alpi. Già, come è stato possibile che un imbianchino italiano, Vincenzo Peruggia, abbia potuto rubare un quadro così prezioso, dal Sancta Sanctorum di Francia, semplicemente nascondendoselo sotto la giacca? E come è stato possibile che sia riuscito a tenerlo nascosto al mondo, semplicemente, tenendoselo per un paio d’anni sotto una tovaglia? La storia dell’arte è piena di episodi di cretinaggine, inammissibili per qualunque classe dirigente più di mille altri scandali: sarebbe svelarsi, e rivelare al mondo quanto il proprio sistema di potere sia attaccabile, impotente, inadatto, incapace a risolvere il minimo compito di uno Stato, cioè quello di difendere quanto di più prezioso abbia una comunità. Intanto, il furto della Gioconda pone l’opera di Leonardo al cospetto del grande pubblico. L’assenza improvvisa e imprevista la ammanta di un fascino nuovo, ne fa simbolo sommo del genio artistico che, a furia di dilatarsi, diventa addirittura mondiale. Lo spazio vuoto al posto della tavoletta di pioppo dipinta da Leonardo ne aumentò a dismisura il potere ipnotico. Fino a quando Peruggia tentò di «piazzarla» a un antiquario fiorentino per farla acquistare, magari dal Museo degli Uffizi, tutto venne scoperto e in Italia venne arrestato e processato. L’opera, dopo un piccolo tour italiano tra Firenze, Roma e Milano, fu restituita ai francesi. Che da allora ne hanno fatto simbolo, assoluto, non solo del Museo del Louvre ma della loro stessa identità nazionale.
Perché, e qui si arriva al nocciolo della questione, quello di Leonardo da Vinci è genio conteso: gli italiani, riconoscendolo compatriota, lo celebrano come tale. Ma i francesi si vantano di averlo accolto al servizio della Corona negli ultimi anni della sua vita, fino alla sua morte avvenuta ad Amboise nel 1519. E dal momento che la rivoluzione del 1789 ha fatto della Francia una nazione «volontaristica», a cui, cioè, si decide di aderire, anche i francesi lo riconoscono come uno di loro. Questa non è mica una questione da nulla. Lo testimonia la cronaca recentissima. A maggio scorso, in occasione delle celebrazioni per il 500° anniversario dalla morte di Leonardo, s’è sfiorato l’incidente diplomatico tra Roma e Parigi. «Colpa» di un servizio andato in onda sulla rete nazionale transalpina di France 2 che definiva Leonardo da Vinci, appunto, «genio francese». La reazione mediatica, in quel caso, fu capitanata dal Tg2, diretto da Gennaro Sangiuliano, che replicò sarcastico all’appropriazione transalpina: «Non si capisce se trattasi di sbadataggine o della bizzarra versione di uno ius soli che assegna la cittadinanza non alla nascita bensì alla morte […] oppure l’apertura del fronte artistico nell’espansionismo esagonale d’Oltralpe». Insomma, quella reazione (anche popolare) che non è riuscita a suscitare la politica economica o gli scontri politici in sede internazionale, è riuscita, invece, a suscitarla lo «scippo» percepito del genio toscano.
Se l’arte definisce l’identità delle nazioni e delle comunità diventa necessario, dunque, che la questione finisca per interessare direttamente la politica. Perdutasi ormai ogni residua fascinazione negli alberi genealogici, chi è al potere ha bisogno di fondare la sua sovranità su una serie di valori che intende incarnare (o imporre) alla nazione che intende governare e al mondo a cui intende rivelarsi. Questo carattere, che è comune a tutte le comunità, piccole o grandi, diventa palese nel caso dei regimi che ambiscano a farsi imperi. Dall’Inghilterra vittoriana e prima ancora Napoleone, fino alla Germania di Bismarck prima e del Terzo Reich dopo, passando per l’Urss e per gli Stati Uniti, «governare» l’arte dà la legittimazione, culturale, del proprio ruolo dentro e fuori le frontiere nazionali. Di per sé non è dinamica per forza condannabile. Considerando, poi, che ha basi storiche nobili. Uno degli inni più belli a Roma, sicuramente il più struggente, è il «De Reditu», scritto tra il 415 e il 417 dopo Cristo da Rutilio Namaziano. Esponente dell’aristocrazia gallica, ancora orgogliosa di dirsi pagana, che aveva appena visto infranto il sogno fragile dell’effimero tentativo di Giovino di riprendersi l’impero, dovette abbandonare l’Urbe, minacciata dai Goti. Tornò nei suoi possedimenti in Gallia; per farlo fu costretto a imbarcarsi via nave dal momento che aggirarsi per quelle che erano state le vie dell’Impero era diventato pericoloso se non impossibile a causa delle guerre continue e delle razzie. Nell’addio a Roma di Namaziano, proprio all’inizio del poemetto, si legge in particolare: «Fecisti patriam diversis gentibus unam/ profuit iniustis te dominante capi/ dumque offers victis proprii consortia iuris/ urbem fecisti, quod prius orbis erat»; il brano è traducibile così: «Hai fatto di genti diverse una sola patria/ la tua conquista giovò a chi non conosceva la giustizia/ e dando ai vinti la propria legge/ di ciò che prima era mondo facesti l’Urbe». L’ambizione di fare di tante genti una sola patria, come fece Roma, è il sogno (oggi più che mai inconfessato) delle classi dirigenti che si sono alternate nella storia. L’Urbe ci riuscì, fin dai suoi primi passi, convincendo – come ci racconta l’episodio della presa di Veio – le divinità tutelari delle altre città a passare dalla sua parte. Inglobandole, non schiacciandole. L’arte che del sublime, che è attributo naturale della divinità, è strumento, diventa così fondatrice di valori condivisi. E un veicolo eccezionale per ottenere una rapida e duratura consacrazione politica, nazionale e internazionale. Accanto a ragioni così alte, non mancano, però, nemmeno più prosaici motivi di opportunità. Come dimostrare il proprio potere, come suscitare ammirazione e rispetto se non circondandosi di quanto ci possa essere di più bello sulla Terra? Insomma, passando dalla grandiosa poesia tardolatina alla prosa petroniana, ogni Trimalcione ha bisogno di abbellirsi, ammantando se stesso e le proprie origini di bellezza.
È dai tempi dei Romani – e lo sottolinea anche Nannipieri – che il traffico di antichità rappresenta una preoccupazione per chiunque regga le sorti di uno Stato. La Grecia, ma pure l’Egitto, furono saccheggiati da consoli e generali, eppure nessuno s’è mai sognato di parlare di spoliazioni esecrabili. Oggi è ritenuto peccato imperdonabile togliere dal proprio contesto storico e territoriale un qualunque reperto, sia artistico che storico. Fino a qualche tempo fa non era per niente così, anzi: andare all’estero e riportarne vestigia storiche era considerata un’attività nobilissima e meritoria. È stato (anche) grazie a queste spedizioni se l’archeologia ha potuto compiere scoperte fondamentali e, contestualmente, riempire fino all’inverosimile le sale espositive (e i sottoscala…) di quegli autentici scrigni della cultura che sono, per esempio, il British Museum di Londra, il Pergamon Museum di Berlino e lo stesso Museo del Louvre a Parigi.
Tutte, ma proprio tutte, le guerre recenti hanno avuto un fronte artistico. Con i loro predoni e i loro eroi, con il cascame di controversie storiche che ne sono conseguite. Negli ultimi anni s’è preso a glorificare – complice anche il successo internazionale del film di George Clooney uscito nelle sale nel 2014 – i cosiddetti «Monuments Men», cioé quei militari al seguito dell’esercito americano che erano addetti a mappare i siti e i tesori d’Europa per evitare che finissero maciullati nei bombardamenti imposti alle popolazioni civili verso gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Uno sguardo più disincantato dovrebbe indurci a un sorriso amaro: saranno stati anche bravissimi, questi Monuments Men, ma bisogna riconoscere che furono, almeno, distratti: la distruzione dell’Abbazia di Montecassino e quella, ancora più illogica, del Monastero di Santa Chiara a Napoli stanno lì a testimoniarlo, drammaticamente. [maggiori dettagli sulle distruzioni causate dagli anglo-americani al patrimoni artistico italiano rimandiamo allo speciale n.4 di «Storia in Rete» «Bombe sull’Italia», estate 2019, NdR].
Questo per tacere delle spoliazioni: se i nazionalsocialisti caricavano treni interi di quadri e opere d’arte dalla Francia, anche qualche ufficiale inglese ogni tanto allungava un po’ troppo le mani. Alla data del 10 ottobre, scrisse l’ufficiale americano Norman Lewis nel suo diario, poi pubblicato in Italia col titolo di «Napoli ‘44» per Adelphi: «Stanno arrivando reclami per i saccheggi compiuti dalle truppe alleate. In questa guerra, gli ufficiali si sono dimostrati più abili della truppa in faccende del genere. Gli ufficiali dei Dragoni della Guardia, cui è toccato l’onore di essere la prima unità britannica a fare il suo ingresso a Napoli, sono stati accusati di aver tagliato le tele dalle cornici nel Palazzo della principessa e di essersi portati via una raccolta di porcellane di Capodimonte. L’Oss ha ripulito la sontuosa dimora di Achille Lauro. Si dice che alcuni dei pezzi più voluminosi siano stati imballati dentro casse per essere spediti in Inghilterra con la connivenza della Marina». Insomma, tutto il mondo è Paese e, specialmente in guerra, talora si ruba per rubare. Per nostra fortuna, accanto ai predoni più o meno acculturati, ci sono state persone che hanno rischiato, in prima persona, per salvare parte del nostro patrimonio, proprio in un’epoca di furia cieca in cui si passava dalla voracità tedesca a quella angloamericana, quasi senza soluzione di continuità. Si potrebbe parlare quasi di «Perlasca» dell’arte, accennando alla vicenda del sovrintendenti Pasquale Rotondi ed Emilio Lavagnino che, come Giorgio Perlasca aveva fatto con gli ebrei ungheresi, con mille sotterfugi e grande coraggio nascosero e salvarono numerose opere d’arte tra le Marche, l’Umbria e il Lazio.
Possedere l’arte, dunque, è possedere un pezzo di identità propria o altrui. È avere le mani sull’idem sentire. E se le guerre, per fortuna, prima o poi finiscono, il traffico di antichità non conosce sosta. E, a proposito di politica, ecco che emerge il lato oscuro della medaglia: se per ottenere consensi e legittimazione è necessario il possesso, perderlo rappresenta la via più facile alla perdita di credibilità da parte di uno Stato. L’Italia, ahinoi, è in questo in primissima fila. È il caso della «Natività» del Caravaggio, dipinto rubato il 7 ottobre del 1969 dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo e di cui, da allora, si sono perse le tracce. Ai ladri bastò forzare una porta già difettosa; il furto fu denunciato solo qualche giorno dopo. Un capolavoro dell’arte lasciato, praticamente, abbandonato a se stesso. Di cui i grassatori approfittarono scatenando polemiche che raggiunsero, con gli interventi di Leonardo Sciascia e Renato Guttuso, vette altissime. E che dire, inoltre, dei tombaroli che hanno dissezionato interi territori per ricavare spiccioli dai capolavori (vedi il Trapezophoros o l’Atleta di Fano attribuito addirittura al genio classico di Lisippo e tutt’oggi al centro di aspre battaglie diplomatiche e giudiziarie tra Italia e museo Getty di Malibù, in California) dalle quotazioni stratosferiche? Un mercato che, come ogni mondo clandestino, si nutre di soldi. Garantiti, in questo caso, dai milioni di dollari messi sul banco dai colossi, specialmente quelli americani: uno su tutti, il Museo Getty. Gli sforzi diplomatici e politici sono valsi, solo anni dopo, alcune restituzioni al nostro Paese. E il braccio di ferro non s’è certo concluso.
Anche perché, come fa Nannipieri, bisognerà pur chiedersi che senso abbia togliere un capolavoro a un’esposizione californiana, dove può essere ammirato da migliaia di visitatori e dove di sicuro non mancherebbero i mezzi perché sia tutelato così come conviene, per portarlo a rischiare la muffa in qualche vecchio scantinato comunale del nostro Paese, dove rischia invece di rimanere stritolato dall’oblio sonnacchioso della provincia italiana, che del suo patrimonio – specialmente quello relegato nei piccoli centri – dimostra talora, non avendo niente di serio da voler dire al mondo, di non saper cosa farsene.