Gli strafalcioni sulle vicende patrie sono bipartisan. Il direttore della «Nuova rivista storica», Eugenio Di Rienzo, spiega le difficoltà di far sopravvivere l’interesse per la disciplina in un’epoca «totalmente immersa nel presente, incapace di pensare il passato e di progettare il futuro».
di Dino Messina dal Corriere della Sera del 19 dicembre 2017
«Silvio Berlusconi che si diceva felice di poter incontrare il padre dei Fratelli Cervi è una delle immagini più esilaranti e allo stesso tempo deprimenti per gli storici. Ma il vecchio leader di Forza Italia oggi incontra una buona concorrenza nella sindaca di Torino Chiara Appendino che posdata di un secolo l’assedio di Torino e l’atto eroico di Pietro Micca, o nella ministra Valeria Fedeli che confonde Vittorio Amedeo di Savoia con Vittorio Emanuele II, o infine una famosa conduttrice tv secondo la quale gli inglesi andarono all’assedio di San Pietroburgo. Cosa che nemmeno immaginarono di fare».
Annotiamo questa casistica durante una conversazione con Eugenio Di Rienzo (nella foto), docente di storia all’Università La Sapienza di Roma, autore di saggi importanti come Un dopoguerra storiografico o la biografia di Napoleone III, direttore della Nuova rivista storica, trimestrale che quest’anno compie giusto un secolo, essendo stata fondata nel 1917 da Corrado Barbagallo. Un’impresa davvero difficile dirigere una rivista di storia in un periodo in cui non solo i lettori di saggistica diminuiscono (secondo gli ultimi dati Nielsen forniti dall’Associazione italiana editori la saggistica generale ha subito una contrazione al 13,5 per cento) ma in questa minoranza sono sempre meno i lettori di storia. Soltanto quattro italiani su dieci leggono almeno un libro all’anno, in genere sono ragazzi o donne, che preferiscono romanzi stranieri. Lasciando perdere la manualistica e la scolastica, chi compra un saggio oggi si orienta sulla filosofia o sulla sociologia, si rivolge sempre meno alla storiografia.
Con quali ambizioni, professor Di Rienzo, dirige una rivista di storia, pur gloriosa, in questa situazione?
«La nostra ambizione è rimasta quella delle origini: rivolgersi a un pubblico non soltanto specialistico per raccontare il passato, dall’antichità ai giorni nostri, senza mettere alcuna limitazione. Per noi, oggi come ieri la storia rimane il miglior apprendistato alla vita civile e alla vita politica. A Nuova rivista storica hanno collaborato alcuni tra i maggiori studiosi italiani, da Federico Chabod a Rosario Romeo, con un’interruzione nel solo biennio ’43-‘44, dovuta alla penuria di carta. E negli anni recenti hanno scritto per noi tantissimi studiosi, da Franco Cardini a Giuseppe Galasso. Contro le mode della world history o della storia di genere, la nostra rimane una storia generale, sostanzialmente politica. Seguiamo, insomma, un modello classico, ma non vecchio. Non rivendichiamo univoche appartenenze ideologiche, tant’è che il sottoscritto e i condirettori Aurelio Musi, Luciano Monzali, Andrea Ungari, William Mullighan, Bruno Figliuolo su tante questioni la pensiamo in maniera diversa. Ciascun autore è libero di esprimere il suo punto di vista. D’accordo con Benedetto Croce, la storia è anche storia del presente. Cerchiamo di far luce su alcuni problemi contemporanei, per esempio la crisi ucraina a partire dalla drammatica storia del Novecento e non solo; le crisi petrolifere inquadrate nei vari contesti storici».
Nonostante gli sforzi vostri e di altri non si può tuttavia negare che questi non siano anni facili per la storia. Perché?
«Perché viviamo in un’epoca totalmente immersa nel presente, incapace di pensare il passato e quindi progettare il futuro. La globalizzazione ha portato a un appiattimento orizzontale ma anche verticale. Negli studi questa situazione ha generato la cosiddetta world history, per cui si mette sullo stesso piano, per esempio, l’Atene di Pericle con lo sperduto villaggio dell’Asia centrale».
Quel che lei ha definito “nuovo analfabetismo storiografico” dipende soltanto dalla globalizzazione o ci sono altri responsabili?
«Sicuramente la scuola, riducendo le ore dedicate alla storia, ha le sue responsabilità. E certamente anche il corpo docente formatosi dopo il 1968. Nelle aule universitarie si presentano ragazzi di 19 anni che dopo l’intero ciclo delle scuole secondarie non sanno dire il nome del re che ha portato all’unificazione italiana, non sanno che cosa è avvenuto a Porta Pia, che tra l’altro è a due passi dal nostro ateneo, non sanno in quale periodo si è sviluppato il fascismo.
L’analfabetismo storiografico è un fenomeno soltanto italiano?
«Posso dire di no, avendo a che fare continuamente con gli studenti stranieri venuti a Roma con l’Erasmus. Certi studenti inglesi, che seguono programmi modulari, conoscono per esempio molto sulla famiglia Borgia o su una corrente estetica degli Anni Trenta, ma del resto della storia universale ignorano tutto. Un discorso analogo, ahimé, si può fare per i loro colleghi francesi. Bisogna dire che si salvano i ragazzi provenienti dai Paesi dell’Est, che hanno seguito piani di studio più completi».
Qual è stato un periodo felice, a suo avviso, per la ricerca e la divulgazione storiografica?
«Sicuramente il Novecento. Il secolo appena trascorso, pur con tutti i suoi orrori, si è caratterizzato per una forte connotazione ideologica, che è una delle molle che spingono alla conoscenza della storia».
Tuttavia soltanto nei primi anni Duemila si è cominciato a insistere sull’importanza della memoria e a istituire giornate dedicate, appunto, alla memoria della Shoah, al ricordo della tragedia delle foibe, o delle vittime del terrorismo…
«Sono tutti aspetti da studiare in modo approfondito, sempre, ma a mio avviso l’istituzionalizzazione della memoria può provocare reazioni di rigetto».