«Chi rispetta la bandiera da piccolo, la saprà difendere da grande». È una tipica frase da libro Cuore. Infatti fu messa in bocca da Edmondo De Amicis a un vecchio ufficiale in pensione che aveva fatto la guerra di Crimea e che parlava con quella fierezza anacronistica, decisamente patriottico-militaresca, a un gruppo di giovani. Si potrebbe postillare banalmente che se la bandiera non la rispettano i grandi, tantomeno sapranno rispettarla i piccoli. Se poi il tricolore viene maltrattato nelle scuole e nei luoghi istituzionali delle maggiori città, dove spesso penzola sfibrato e stracciato senza avere neanche più la forza di sventolare, viene fuori fatalmente il quadro di un Paese che ha perso l’amor proprio e il senso orgoglioso di un’appartenenza, pur non essendo da tempo – grazie al cielo – militarescamente patriottico come desiderava l’ufficiale deamicisiano. Perché questo, semplicemente, dovrebbe essere una bandiera: il simbolo dell’orgoglio nazionale, in cui si riassume il vivere collettivo (e non solo quando gioca la Nazionale ma anche nella vita ordinaria).
di Paolo Di Stefano dal Corriere della Sera del 17 giugno 2013
Invece, al Commissariato della Polizia di Stato di Scampia a Napoli è ridotta a un groviglio di stracci arrotolati al pennone. Si potrebbe obiettare che gli agenti di quel quartiere hanno ben altro a cui pensare. Ma poi ci si accorge che anche nella Galleria Umberto il tricolore giace sbrindellato e pressoché irriconoscibile. La bandiera issata sulla facciata di una chiesa di corso Italia a Milano non può neanche sventolare tanto è arrotolata su sé stessa; all’Istituto Carlo Cattaneo di Roma pende sfrangiata accanto al drappo blu dell’Europa; sopra il portone della Scuola media Archimede di Palermo è rimasto solo un bicolore, verde e bianco, mentre il rosso si è perso definitivamente, smangiato forse dal vento di mare; e all’Università degli Studi di Torino i colori appaiono sbiaditi, evaporati, portati via dal tempo storico e dal tempo atmosferico.
Tutto vero, dirà qualcuno, ma se la bandiera è uno specchio della Nazione, non potrà che riflettere lo sfilacciamento in atto, la sfiducia e la smagliatura del tessuto sociale. Già Leo Longanesi, in uno dei suoi aforismi celebri capaci di colpire nel segno, sosteneva che «la nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia». Quell’auspicio iperrealista quanto dissacrante si potrebbe ripetere oggi, tale e quale, sessant’anni dopo. Sottinteso: bando alla retorica utopica e al sentimentalismo ipocrita, andiamo piuttosto alla cruda realtà quotidiana; non c’è bandiera che tenga in un Paese impoverito, ridotto a uno straccio, appunto.
D’accordo, ma è anche vero che non c’è nessuno straccio di Paese (povero, distrutto, affamato) che abbia perso a tal punto il senso della collettività da non credere più nel proprio simbolo. Per questo, a volerla leggere come correlativo oggettivo, non c’è immagine più tristemente significativa del tricolore che si affloscia pallido ed esausto dalla facciata di un palazzo pubblico: scuola, tribunale, teatro, caserma… Se fosse soltanto il segno dei tempi (e magari della crisi), in fondo sarebbe il meno. Invece, da Sud a Nord, senza distinzione, la bandiera viene non tanto offesa da una volontà iconoclasta (ricordate cosa voleva farne Bossi all’apice del suo fervore padano?), ma abbandonata al suo destino dall’incuria, dalla strafottenza, dall’indifferenza, le stesse che lasciano andare a rotoli i monumenti e il patrimonio culturale in cui dovrebbe riconoscersi una comunità che abbia memoria e consapevolezza di sé e della propria storia. Come se il loro malinconico destino non fosse il nostro stesso destino. Non simbolico ma molto reale.