Che le forze italiane abbiano usato armi chimiche nella guerra d’Etiopia del 1935-’36 è un dato storico. Ma sulle proporzioni e i reali effetti di quell’impiego non è possibile usare come fonti le dichiarazioni dei ras abissini. Occorre un’approfondita analisi delle fonti e competenze di chimica militare che molti storici dell’impresa coloniale italiana non sempre sembrano avere.
di Pierluigi Romeo di Colloredo da Storia in Rete n. 67
Quando il due ottobre del 1935 le truppe italiane passarono il confine con l’Etiopia varcando il fiume Mareb, numerosi esperti militari europei si affrettarono a predire una nuova Adua, o, nel migliore dei casi, che le enormi difficoltà logistiche non avrebbero consentito agli italiani il conseguimento di risultati rapidi e brillanti ed era stato previsto che la guerra si sarebbe arenata allungandosi per anni, se non addirittura che sarebbe finita con una disfatta italiana. Allora come oggi ad ogni guerra le redazioni dei giornali richiamavano in servizio vecchi generali in pensione, presentati come esperti di strategia e tattica. E allora come oggi le loro previsioni si presentarono quasi sempre completamente sballate. […]
Una premessa necessaria: è vero, gli italiani usarono i gas, e li utilizzarono molto più spesso di quanto certa pubblicistica post-bellica abbia voluto ammettere. Un errore grave quello di negare l’uso dell’iprite, tanto da dare credito alla propaganda di segno opposto, sovente grottesca nel falsare la realtà. Sull’argomento si è passati infatti da una totale negazione ad un’acritica adesione alle tesi della propaganda etiopica sull’uso indiscriminato dei gas. Dapprima i lavori dell’inviato del “Giorno” (considerato usualmente storico professionista, cosa che non è mai stato) il novarese Angelo Del Boca, poi di autori britannici quali Anthony Mockler (“Haile Selassie’s War”, volume I, “The War of the Negus”, tradotto non si sa perchè in italiano, ma che essendo uno dei pochi lavori in inglese sull’argomento è troppo spesso utilizzato da autori anglofoni come fonte) e Denis Mack Smith nel suo pessimo “Le guerre del duce” fecero assurgere a verità di fatto le più strampalate leggende che la propaganda abissina, attendibile quanto un bollettino di guerra napoleonico, potesse concepire.
Ma partendo dai fatti, la situazione è abbastanza diversa. Per quanto riguarda l’utilità dell’uso dei gas asfissianti, la richiesta partì dal maresciallo Badoglio (che non va dimenticato, s’era formato in gran parte durante la guerra 1915-‘18, in cui i gas furono utilizzati normalmente) allo scopo di accelerare le operazioni belliche. Tale richiesta fu accolta dal Duce, ma solo in casi eccezionali “per supreme ragioni di difesa” (DEPA, Tel. Mussolini A.O., segreto, n. 14551). Tuttavia si trattò di un duplice errore, sotto il profilo militare perché non recò alcun effettivo vantaggio e sotto il profilo politico perché diede l’occasione di screditare le forze armate e, quindi l’Italia, davanti a tutti coloro che all’estero avevano disapprovato il conflitto, come scrisse il generale Oreste Bovio già direttore dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Spesso si è attribuito quasi un significato politico all’uso delle armi chimiche, tralasciando di notare come non si fece impiego dei gas nella prima fase della campagna, sotto il comando del fascista e quadrumviro della Rivoluzione De Bono, che pure, come comandante del IX Corpo d’Armata, nel 1918 aveva usato i gas contro gli austriaci sul Grappa con la compagnia chimica X, ma solo a partire dal dicembre del 1936, sotto quello del tecnico Badoglio (e, in Somalia, di Graziani, che fascista non fu mai, neppure durante la RSI). Mussolini diede sì l’autorizzazione all’uso delle armi chimiche, ma su richiesta di Badoglio in qualità di Comandante superiore e di Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, sul quale come s’è visto, il Duce faceva pieno affidamento per la parte operativa della campagna.
Furono usate bombe d’aereo all’iprite e, sul fronte sud, anche fosgene [vedi box NdR]. Si è affermato che vennero usati anche proiettili a gas sparati dai pezzi da 105/18 (che Del Boca cita erroneamente come “105/8”), secondo il sistema in uso nella Grande Guerra. Per chi era uscito dalla prima guerra mondiale i gas erano un’arma come un’altra, ed addirittura preferibile ad altre, secondo alcuni un arma che poteva fiaccare il morale avversario senza essere necessariamente sempre letale. Nel 1923 il generale John Frederick Charles Fuller, uno dei maggiori innovatori britannici in campo strategico scriveva nel suo “The Reformation of War”: “uccidere non è l’obbiettivo della guerra. Se quest’assunto è accettato, allora, dal momento che un bagno di sangue è antieconomico, un tentativo dev’essere certamente fatto per sviluppare quei mezzi che possano costringere un avversario a modificare la sua politica sconfiggendo il suo esercito senza spargimento di sangue. La guerra dei gas ci consente di farlo, in quanto non c’è nessuna ragione per cui i gas impiegati come armi debbano essere letali (…) Il gas… è per eccellenza l’arma della demoralizzazione, e poiché può terrorizzare senza necessariamente uccidere, più di ogni altra arma conosciuta può servire ad imporre in modo economico la volontà di una nazione ad un’altra”. Inoltre all’epoca non furono solo gli italiani ad usare aggressivi chimici. Gli inglesi usarono i gas nel 1931 a Sulainam, in Irak, per sopprimere il capo curdo Karim Bey, reo dell’uccisione di due funzionari britannici e ancora nel 1935 in Afghanistan, lungo la frontiera con l’India, contro tribù pathane ribelli. Dunque se si vuole capire il comportamento degli italiani in Etiopia, esso andrebbe quanto meno contestualizzato nel quadro della condotta coloniale dell’epoca.
Angelo Del Boca si è spesso vantato d’esser stato il primo a portare a conoscenza del pubblico italiano l’impiego delle armi chimiche, ma ciò non risponde a verità. Che durante la guerra d’Etiopia si fossero usati i gas era invece noto già da prima: basti citare la testimonianza di Paolo Caccia Dominioni sui bombardamenti sul Mai Tonquà del gennaio 1936. Intorno al giorno 22 gennaio sul Mai Tonquà, sotto l’Amba Tzellerè, l’aviazione aveva impiegato i gas asfissianti per la prima volta. Testimonia Caccia Dominioni: “gli aerei hanno avuto, se così si può dire l’ala pesante. E non soltanto con bombe e mitraglia. Numerosi cadaveri non portano tracce di ferite (…). Sono giunte, con gli ascari, anche squadre dette di disinfezione, specializzate. Hanno ordine di non perdere tempo questi seppellitori: debbono far scomparire subito le tracce di quanto è successo”. Giuseppe Bottai, allora tenente colonnello della divisione Sila, annota a sua volta nel proprio diario (pubblicato ben prima delle opere di Del Boca), alla data del 5 febbraio dello stesso anno: “(…) Precauzioni: non raccogliere le bombe inesplose dei nostri aeroplani, che si trovassero sul terreno e le schegge di bombe, che potrebbero essere ipritiche (…)”. Circolavano inoltre fotografie scattate da soldati italiani di morti per i gas, che vennero sicuramente mostrate al ritorno dalla guerra ad amici e familiari in Italia. Del Boca si guarda bene dal citare le critiche alla sua metodologia di ricerca ed alla selettività sulla scelta delle fonti e del loro utilizzo limitandosi sbrigativamente a definire chi non è d’accordo “nazionalfascista”. Un’etichetta che tuttavia non si attaglia certo a due storici professionisti quali Luigi Goglia e Fabio Grassi, che nel loro “Il colonialismo italiano da Adua all’Impero”, (1981) hanno assunto posizione affatto differente.
Appurato ciò, il passo successivo è controllare quanto massiccio sia stato l’impiego di queste armi durante la campagna d’Etiopia. Se realmente dunque gli aggressivi chimici fossero stati usati su larga scala come preteso dagli etiopi e da certi storiografi se ne avrebbero molte più testimonianze, mentre molti soldati italiani poterono ignorarne l’uso in perfetta buona fede. Ciò è ricordato anche da Luigi Goglia: “a questo proposito è stato notato da altri, ma anche chi scrive ne ha fatto diretta esperienza intervistando reduci di quella campagna, che l’uso dei gas era ignorato allora dai più (ancora oggi molti sono increduli)”. In aggiunta a questo, malgrado fotografie e filmati realizzati durante la campagna siano numerosissimi e ben noti, in nessuno è visibile un solo soldato italiano equipaggiato con portamaschere modello 1933 o 1935, cosa impensabile se davvero i gas fossero stati usati nelle quantità pretese dal giornalista novarese: è noto infatti che i gas possono essere spostati dal vento, e in moltissimi casi durante la Grande Guerra le nubi tossiche sono state spinte verso le linee amiche, rendendo indispensabile l’equipaggiamento antigas anche in fase offensiva. Anche il duca Luigi Pignatelli della divisione Leonessa si era occupato dell’uso dei gas prima di Del Boca – e con ben altra obiettività – scrivendo che: “Dobbiamo ritenere (e a Ginevra non lo smentimmo) che nel corso della campagna fu fatto talvolta uso, dai bombardieri italiani, di bombe all’iprite. L’impiego di questa terribile arma, che con altre simili e peggiori era stata largamente utilizzata da entrambe le parti belligeranti nella guerra 1914-1918, fu limitato a particolari casi e se non mancò di avere effetto psicologico, fu ben lontano, come è ovvio, dall’agire risolutivamente sulle sorti della campagna. Sconsigliato a suo tempo dagli ufficiali esperti della guerra coloniale, fu, senza alcun dubbio, un inutile errore. Un racconto anche sommario del conflitto italo etiopico, non può, in ogni modo, prescindere dal registrare obiettivamente il fatto, il quale non è destituito d’importanza”. Come si vede, che i gas fossero usati non è dunque una “scoperta” di Del Boca. Il giornalista britannico Anthony Mockler, visto che non poteva attribuire ai gas italiani i massacri di cui si è favoleggiato, arrivò a scrivere nel suo “Haile Selassie’s War” che “il gas costituiva un grosso problema, ma causava più spavento che danni (…) Anche quando i gas arrivavano a contatto della pelle, le scottature potevano essere evitate. […]
Va detto invece che neanche Del Boca nelle sue opere non accenna mai all’uso di armi batteriologiche, di cui l’Italia peraltro non disponeva. Programmi di ricerca in tal senso furono sviluppati dagli inglesi nel 1925 e dai giapponesi nel 1932; gli statunitensi iniziarono ad occuparsene nel 1941, e i tedeschi solo nel 1943. Anche gli altri ordini citati dallo storico britannico non esistono: anzi, riguardo al “bombardamento degli ospedali” in un telegramma del Duce a Badoglio del 1 gennaio 1936 si fa esplicitamente divieto di bombardare la Croce Rossa: “[V.E.] dia ordini tassativi perché impianti croce rossa siano dovunque e diligentemente rispettati”. Del Boca nei suoi studi fa da grancassa alle chiacchiere della propaganda etiopica sugli apocalittici effetti dei gas asfissianti, riportando diligentemente le dichiarazioni di ras Cassà: “Il bombardamento era al colmo quando, all’improvviso, si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata. Tutto ciò che le bombe avevano lasciato in piedi, i gas l’abbatterono. In questa sola giornata un numero che non oso dire dei miei uomini perirono. Duemila bestie si abbatterono nelle praterie contaminate. I muli, le vacche, i montoni, le bestie selvatiche fuggirono nelle forre e si gettarono nei precipizi. Gli aerei tornarono anche nei giorni successivi. E cosparsero di iprite ogni regione dove scoprirono qualche movimento”.
Ora, se è vero che i gas tossici furono certamente impiegati in misura assai maggiore di quanto ammise l’ex ministro delle colonie Michele Lessona, in realtà le armi chimiche non influirono in maniera rilevante sulle operazioni militari. Questa è anche l’opinione di Luigi Goglia che pur ricordando come l’uso dei gas non solo a scopo di rappresaglia sia ricordato nel Diario storico del Comando Supremo AOI , scrive che “da parte etiopica si è forse voluto sopravvalutare l’importanza dei bombardamenti a gas fatti dagli italiani”. Del Boca invece accetta in toto le affermazioni del ras, arrivando a scrivere che “l’iprite sinora era stata lanciata soltanto in grossi bidoni e non irrorata con speciali diffusori”. In realtà, i gas venivano lanciati con le bombe C.500T, che esplodevano ad un’altezza di 250 metri spargendosi poi per ellisse di 500 m per 100, e non irrorata. […]
Il grande giornalista e scrittore inglese Ewelyn Waugh (Del Boca riesce a sbagliarne nome e cognome, chiamandolo Evelyne – che è un nome femminile! – Waught) ricorda che la notte tra il due ed il tre ottobre del 1935 i giornalisti di Addis Abeba erano in preda al timore dei bombardamenti italiani, aggiungendo che di certi corrispondenti “si racconta che giocarono a poker tutta la notte indossando le maschere antigas”. La psicosi dei bombardamenti e la propaganda anti italiana nei primi giorni di guerra è ben evidenziato dall’episodio grottesco delle corrispondenze sul bombardamento e la distruzione dell’ospedale di Adua, “distruggendolo ed uccidendo molte donne e bambini”, nel quale sarebbe morta un’infermiera straniera. Un’infermiera della quale di volta in volta cambiava la nazionalità – svedese o americana – l’età, il nome e la descrizione fisica a seconda dei vari “testimoni”: un greco “che conosceva bene il posto”, un architetto svizzero sposato ad una mulatta o un pilota di colore americano cui l’infermiera avrebbe offerto una cioccolata proprio cinque minuti prima del bombardamento. Lo stesso Haile Selassie rimase colpito e turbato dalla tragica fine dell’infermiera. Ma in realtà non erano mai esistiti né l’ospedale bombardato né la crocerossina martire, come ben presto Waugh ed i suoi colleghi avevano capito: “Quando cominciammo a cercare di raccogliere particolari sull’accaduto, ci nacque il dubbio che forse ad Adua non c’era mai stato nessun ospedale. Di certo non esisteva un ospedale etiopico, e le unità della Croce Rossa non erano ancora arrivate fin lassù; quanto alle missioni, non sapevano nulla di un loro ospedale ad Adua, né i Consolati sapevano di loro connazionali che vi fossero occupati”.
I giornalisti furono costretti a rispondere alle pressione dei propri giornali per avere notizie: “Ben presto cominciarono ad arrivare cablogrammi da Londra e da New York: “Richiediamo al più presto nome biografia fotografia infermiera americana saltata aria”. Rispondemmo: “Infermiera non saltata aria” e dopo qualche giorno la cosa aveva già cessato di fare notizia”. Pignatelli scrive a proposito di quest’episodio: “La stampa internazionale, nella quale contavamo in quel tempo ben pochi amici non ci risparmiò le sue rampogne, esagerò anzi i racconti dell’episodio, indicando gli italiani come massacratori di popolazioni inermi”. Eppure ancor oggi taluni storici continuano a parlare del bombardamento di Adua e del suo ospedale. Tra questi, ovviamente, Del Boca e Mack Smith…
Ma torniamo ai gas. Si è già ricordato come il primo uso di gas avvenne solo nel dicembre 1935; ma la propaganda etiopica aveva già iniziato a parlarne prima della guerra, così che poi le denunce in proposito che vennero propalate da Addis Abeba furono prese per vere (e lo sono tuttora) senza alcuna verifica. In molti casi morti di colera vennero spacciati per vittime delle armi chimiche, così come foto di lebbrosi vennero diffuse come di vittime dell’iprite, tanto che Mack Smith le riprende in un suo lavoro del 1978. Ma le ferite dell’iprite e quelle della lebbra sono facilmente distinguibili a chi abbia un occhio esperto. Quanto alle quantità usate, va ricordato come la concentrazione minima dell’iprite per essere efficace debba essere di un decimo di grammo per metro cubo d’aria, ragion per cui se si desiderasse appestare un quadrato di quattro chilometri di lato (all’incirca lo spazio occupato dall’armata di ras Cassa), alto una ventina di metri, anche questo piccolissimo valore darebbe pur sempre un peso totale di trentadue tonnellate, più quello dei contenitori o dei proiettili necessari al trasporto dell’aggressivo. Un bombardiere italiano del 1936 poteva trasportare fra cinquecento o mille chili di bombe: ne sarebbero occorsi non meno di una sessantina per un modesto raid che si proponesse il limitato obiettivo che c’è servito di calcolo e di semplicissimo esempio.
E ancora. L’iprite è un gas estremamente persistente, perché non è solubile in acqua: il suo effetto può durare per delle settimane, addirittura mesi, rendendo impercorribili le zone in cui si è depositata, tanto che nella Grande Guerra veniva usato per interdire al nemico le avanzate e per favorire le ritirate. Proprio questa persistenza rendeva l’uso del gas estremamente problematico: in caso d’avanzata, occorreva prendere speciali precauzioni per la salvaguardia delle proprie truppe, che – come si è accennato sopra – non pare siano mai state prese per le truppe italiane, tantomeno per gli ascari che – com’era loro tradizione – combattevano scalzi. Inoltre l’impiego dell’iprite era estremamente condizionato dalle condizioni meteo: bastava un minimo di vento per disperdere subito la nuvola mortale, per cui la velocità del vento stesso, sulla base delle conclusive esperienze della Prima guerra mondiale, non doveva mai superare i quattro o cinque metri al secondo. Ma se non ce n’era del tutto, la nuvola non si formava neppure. E queste due condizioni limite sono piuttosto rare: quando si verificavano, potevano non durare abbastanza a lungo. E se anche duravano, bisognava vedere qual era la velocità di spostamento dell’avversario. Se era legato ad un sistema di trincee, che non doveva e non poteva abbandonare, è una cosa: ma se si trovava in aperta campagna, non legato a una posizione fissa, era uno scenario del tutto differente. Il sottosegretario di Stato all’Aeronautica, generale Giuseppe Valle, in una sua relazione sulle operazioni in AOI, scrisse a proposito dell’aleatorietà dell’azione aerea in un simile contesto operativo: “Data la grande distensione del fronte, la vastità del territorio e l’assenza di centri vitali, il nemico dal punto di vista aereo poteva dimostrarsi organismo amorfo. Truppe non acquartierate e radunate in località non certo determinabili come nei paesi civili, ma aggruppantesi qua e là attorno ai vari capi. I movimenti erano effettuati poi in piste pochissimo note con una suddivisione minuta degli armati che andavano verso punti di concentramento di difficile definizione. Tutto ciò rendeva nullo ed esasperante il compito dell’aviazione”.
Ma per Del Boca, le vittorie italiane furono determinate dall’uso dei gas: per esempio a passo Uarieu dove le camicie nere resistettero contro forze 20 volte superiori. Ma in quel contesto, se davvero vi fosse stato un impiego massiccio dei gas, anche volendo ammettere che le trenta bombe lanciate sul Ghevà fossero ipritiche, a pagarne le maggiori conseguenze sarebbero state paradossalmente proprio le Camicie Nere assediate all’interno del forte. Gli italiani, si dice, saturarono i fronti avanti alle loro truppe di nuvole di gas: tuttavia è certo che non fu presa nessuna speciale precauzione quando si trattò di andare all’inseguimento, come fecero le camicie nere di passo Uarieu e gli ascari di Vaccarisi. Eppure le truppe indigene marciavano a piedi nudi, ed erano particolarmente esposte alle conseguenze della presenza di gas nella polvere del terreno, così come vi erano esposti gli animali delle truppe nazionali (sia i quadrupedi quanto gli animali da carne portati come riserva alimentare). Inoltre in una regione dove l’acqua scarseggiava bisognava procurarsela attingendo a fonti locali, che in nessuna cronaca risultano intossicate dalle armi chimiche. E dunque l’uso dei gas a Passo Uarieu è una bufala. La ritirata etiopica fu causata dalla sconfitta militare, causata dalla strenua ed inaspettata resistenza della 28 Ottobre e delle camicie nere del I Gruppo, che avevano trattenuto le truppe di ras Cassa sino all’arrivo della 2a Divisione Eritrea. Tutte le testimonianze sono concordi nel confermare che i primi nuclei abissini avevano iniziato a ritirarsi nella serata, ma che i combattimenti si protrassero anche la mattina del 24 e che la rotta avvenne quando comparvero gli ascari e le camicie nere inviate in soccorso dei difensori. Ras Cassa pretese invece che i suoi guerrieri fossero stati gasati mentre conducevano l’attacco al forte, quindi a ridosso delle posizioni italiane: una versione smentita dai fatti e inverosimile dal punto di vista tecnico. Probabilmente un attacco chimico fu fatto sul Ghevà, nelle retrovie abissine per bloccare l’afflusso di rinforzi abissini. E tuttavia non è certo che davvero le trenta bombe C.500T lanciate il 23 gennaio fossero state caricate a gas, dato il rifiuto di Aymone Cat – comandante di quel settore – di ordinare l’uso dei gas.
Al contrario, Del Boca si dimostra invece ben più comprensivo verso le violazioni delle leggi di guerra da parte degli etiopici: come è noto gli abissini fecero costantemente uso di proiettili esplosivi o scamiciati [genericamente chiamati “pallottole dum dum”] il cui uso era proibito dalle convenzioni internazionali. Tale fatto è totalmente taciuto dagli autori che invece si dilungano sugli i attacchi coi gas moltiplicandoli. Addirittura Del Boca arriva a scrivere che si trattava di proiettili di piombo dolce, un giro di parole che invece nasconde ben altro. “L’ultima delle mitragliatrici conquistate, una Vickers Armstrong, è nuova e moderna”, testimonia Sandro Sandri, uno dei migliori corrispondenti di guerra della storia del giornalismo italiano (morì in Cina in uno scontro tra cinesi e giapponesi nel 1937) “…Nel nastro di canapa che vi è infilato, ogni venticinque cartucce, normali, ve ne sono dieci forate all’estremità. Le classiche dum dum che quando colpiscono provocano orrendi squarci di difficile guarigione e il più delle volte mortali…”. Le pallottole dum dum utilizzate dagli abissini erano prodotte dalle ditte Société Française des Munitions, Kynoch Witton Limited di Birmingham e Eley Brothers ltd. di Londra. Ma nello zibaldone di Del Boca si cercheranno invano questo tipo di testimonianze, che non collimano con le idee del giornalista novarese. Se la verità va contro la sua tesi, tanto peggio per la verità. Al limite la si bolla come revisionismo…