Poco prima della mezzanotte del 23 novembre 1963, sconvolto dalla stanchezza e dall’enormità di ciò che aveva visto e toccato tutto il giorno, il dottor James Humes, capo patologo all’Ospedale della Marina americana, fece il gesto che avrebbe bruciato forse per sempre la speranza di rispondere alla domanda che da mezzo secolo attende una riposta: perché fu ucciso John Fitzgerald Kennedy?
Vittorio Zucconi per “la Repubblica” del 31 ottobre 2013
Perché, 50 anni dopo, ancora non possiamo dire di conoscere tutta la verità su quei tre colpi di fucile che cambiarono la storia del mondo, su quell’Atto crudele e sconvolgente, come titola il nuovo formidabile libro di Philip Shenon? Il dottor James Humes prese gli appunti, i dati e le minute che aveva scritto e raccolto nelle sette ore di autopsia sul cadavere del presidente, depositato la sera prima nell’obitorio per l’esame autoptico e li gettò nel caminetto acceso della sua casa di Bethesda, lo stesso sobborgo di Washington dove è il Naval Hospital, e li osservò trasformarsi per sempre in cenere.
Di quelle lunghe ore di lavoro e di studio sui resti di Jfk rimase il suo referto finale, ma delle osservazioni, del materiale originale tutto scomparve. Che cosa davvero avesse visto il dottor Humes frugando nei resti del presidente, che opinione professionale si fosse fatto, quali delle tante malattie segrete e gravi di Jfk nascoste dalla propaganda di “Camelot” avesse riconosciuto, nulla rimane. Humes, che visse a lungo dopo quella notte, non diede mai una spiegazione di quel falò. Ma ora sappiamo che lui, come gli altri tre medici che collaborarono all’autopsia, vissero per mesi, e per anni, nel terrore di essere uccisi, perché conoscevano cose che noi umani non avremmo dovuto conoscere.
Da qui, da quella sera in una piccola casa di Bethesda, comincia anche il viaggio nell’abisso del “caso Kennedy” che Philip Shenon, autore e inchiestista del New York Times, il reporter al quale furono affidati il servizio e la squadra di giornalisti dopo l’11 settembre, compie alla ricerca del “Sacro Graal” della risposta al chi, perché e come fu ucciso Jfk. E del chi, perché e come la versione ufficiale, il Rapporto Warren, apparve immediatamente incredibile ed evasiva. Addirittura essa stessa prodotto di una “cospirazione” per nascondere, come più tardi avrebbe sancito un’inchiesta parlamentare. Una verità, se non “LA” verità nel lungo viaggio di 700 pagine che Shenon ha compiuto anche lui, come tutti noi che da generazioni siamo stati contagiati dal virus del “mistero Kennedy”, la trova, alla fine. Ma non è quel colpo di tuono, quel giorno del Giudizio Universale che i mistici attendono dopo le umane esistenze di menzogne.
Senza voler rovinare la lettura di questo reportage, la conclusione è che il governo americano, l’amministrazione di Lyndon Johnson, la Cia, che rapidamente s’impossessò del timone dell’inchiesta, l’Fbi, ancora guidato da un «vecchio senile e paranoico con troppe cose da nascondere » (J. Edgar Hoover), i membri della Commissione, tra i quali il futuro presidente Gerald Ford, allora capogruppo del partito repubblicano alla Camera, le polizie locali, tutti, parteciparono alla “Grande Menzogna” per nascondere un nome: Cuba.
Johnson, e con lui i potentati Usa erano convinti che Lee Harvey Oswald fosse un muppet dei cubani e dei Castro, decisi a consumare finalmente la loro vendetta contro quel Kennedy che per lunghi mesi aveva tentato, dopo il miserabile fallimento alla Baia del Porci, di uccidere Fidel, fallendo.
È la stessa risposta che a scrive diede un potentissimo vecchio in un’intervista per Repubblica poco prima di morire, Jack Valenti. Jack era l’ometto, piccolo di statura e ancor più piccolo accovacciato nella foto, che si vede alle spalle di Lady Bird Johnson nell’Air Force One che trasporta la bara di Kennedy da Dallas a Washington, mentre Johnson giura per assumere la presidenza accanto a Jackie con l’abito ancora sporco. Era dunque uno degli uomini “dentro”, vicinissimo al nuovo presidente, all’interno del “cerchio magico”.
Nel suo studio di boss assoluto e imperioso della Associazione americana dei produttori di film a Washington, ormai malato terminale, Jack mi disse che il suo capo, il presidente, aveva raggiunto la certezza che fossero stati i cubani, con o senza l’imprimatur dell’Urss, a pilotare Oswald, nel doppio e triplo gioco dell’anticastrismo gorgogliante a New Orleans, come poi avrebbe narrato anche Oliver Stone nel suo Jfk.
Ma se la verità fosse uscita, l’America avrebbe dovuto immediatamente lanciare l’invasione di Cuba. Senza sapere, in quel 1963, che ancora i reparti sovietici sull’isola disponevano di armi atomiche tattiche, di breve gittata, con l’autorizzazione a usarle contro invasori.
La Grande Menzogna che fu il Rapporto Warren, le misteriose scomparse di documenti, prove, testimoni, a cominciare dallo stesso Oswald fulminato da Jack Ruby sotto gli occhi della polizia di Dallas, sarebbe dunque una colossale operazione di cover up, di insabbiamento e di diversione, per evitare un probabilissimo scontro nucleare fra Usa e Urss.
Shenon, in una delle più importanti pagine del suo libro, scopre una notizia inedita che tende a confermare la tesi: nel 1963, Lee Harvey Oswald che già era entrato e uscito dall’Urss, che aveva rinunciato e poi ripreso la cittadinanza Usa andando e venendo da una Russia degli anni 50 come fossero gite fuori porta, Marine scelto, cane senza lavori nè collari visibili, suona alla porta dell’ambasciata russa a Mexico City ed è respinto, indirizzato verso i cubani. E questo era noto.
Quel che segue non lo era. Oswald viene ricevuto dai cubani. Nel settembre del 1963, conosce e ha una relazione con una segretaria cubana della legazione, dove la parola segretaria si presta alle più ampie interpretazioni. Viene visto con lei a un party del “twist” in onore di Chubby Checker, allora l’idolo di questo ballo anni ‘60, e lei lo mette in contatto con un alto funzionario dell’ambasciata conosciuto per il suo feroce anti-americanismo e soprattutto per l’odio verso Kennedy.
Due mesi più tardi, Lee Harvey Oswald è affacciato alla finestra del Deposito Libri di Dallas con la nuca di Jack Kennedy nel canocchiale del suo Mannlicher-Carcano, il dito sul grilletto. La Cia lo sapeva, ma aveva taciuto, e avrebbe taciuto, per non rivelare di avere fonti, «spie», dentro quelle ambasciate.
Quell'”Atto crudele e sconvolgente”, The Cruel and Shocking Act, come leggono le prime cinque parole del Rapporto Warren e come s’intitola il libro in versione originale (Anatomia di un assassinio nell’edizione italiana) conserva quindi, 50 anni dopo, tutta la sua capacità di shock, di sbigottire. La profonda crudeltà dell’evento, anche oltre la brutalità dell’assassino di un uomo, sta proprio nel percorso che questo giornalista segue e che ci invita a seguire. Non un luminoso rettilineo verso la Rivelazione, la Cia!, la Mafia!, i Russi!, il Complesso Militar Industriale, il «L’avevo detto io!» che conforta i complottisti. Ma un labirinto di false porte, di doppi fondi, di trappole, che per essere capito richiede, a chi non ha vissuto quegli anni, il ritorno alle ore della paranoia apocalittica della quale il mondo era prigioniero. Appena un anno prima dei tre colpi fatali (o più), Jfk, la sua famiglia, i collaboratori e i pezzi grossi della Casa Bianca, come racconterà Pierre Salinger, il portavoce del presidente, avevano ricevuto i badge speciali per entrare nella caverna sotterranea sotto i Monti Catoctin, a un’ora di elicottero da Washington e sopravvivere al salvo di missili sovietici previsti in arrivo proprio da Cuba dopo l’ultimatum a Kruscev.
L’olocausto atomico era dato per certo. Sì, certamente – e non per la prima e ultima volta – la autorità americane hanno mentito, hanno steso sudari e disseminato false briciole, hanno costruito con fatica spesso grottesca la tesi del “pazzo solitario” che un bel mattino di novembre decide di far fuori il presidente.
Ma se Shenon – che non ha una propria teoria da vendere, solo fatti da cercare – ha ragione, la Grande Menzogna fu organizzata per evitare una ben più Grande Tragedia, la terza guerra mondiale. «Credimi – mi disse Jack Valenti, l’omino accanto alla bara di Jfk – in quelle ore eravamo terrorizzati dall’idea che si potesse ricondurre a Cuba il filo rosso di quell’assassinio». Forse è vero.
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