Brescia è una bella e civilissima città lombarda famosa per le sue fabbriche e per la concretezza e la serietà dei suoi abitanti. Gente di poche parole e molti fatti, che in un paio di generazioni ha creato una realtà economica e sociale in grado di competere, per capacità e ricchezza, con le più avanzate aree d’Europa e, forse, del mondo. Almeno in un caso, però, neppure i rigorosi e pragmatici bresciani sono riusciti a sfuggire ai vizi nazionali della polemica inutile, della faziosità inconcludente e dell’immobilismo soffocante.
di Massimo Weilbacher da Destra.it del 9 luglio 2015
È il caso del Bigio, una gigantesca statua di marmo di Carrara, opera dello scultore Arturo Dazzi, originariamente collocata nella centralissima Piazza Vittoria di Marcello Piacentini, che dal 1945 giace abbandonata in un deposito comunale e sulla ricollocazione della quale la città discute inutilmente e si divide oramai da qualche decennio.
Piacentini e il 1945 indicano chiaramente la natura della questione.
La piazza, inaugurata personalmente dal Duce nel 1932, è uno dei più significativi esempi di spazio metafisico ed anche uno dei primi casi di realizzazione concreta della cosiddetta arte monumentale, l’estetica, basata sull’integrazione tra architettura, urbanistica ed arti figurative, che avrebbe poi caratterizzato le opere urbanistiche del regime e dato vita anche ad un importante dibattito culturale protrattosi per un decennio abbondante con la partecipazione di tutti i più importanti architetti ed artisti del tempo, italiani e non solo.
In questo clima culturale (siamo a cavallo tra la IV biennale di Monza e la V triennale di Milano) Piacentini a Brescia sperimenta compiutamente per la prima volta il dialogo e la combinazione tra forme diverse di arte arricchendo la piazza di originali opere di scultura: un bassorilievo raffigurante Mussolini a cavallo posto sulla Torre della Rivoluzione, opera di Romano Romanelli (ovviamente rimosso e ad oggi disperso, forse nascosto in qualche deposito comunale), l’Arengario scolpito in pietra rossa da Antonio Maraini (l’unica opera sopravvissuta riportando solo danni limitati), il bassorilievo di Arturo Martini con l’Annunciazione (distrutto dalle bombe alleate) e, infine, il colosso di Dazzi, una statua di quasi 8 metri raffigurante un giovane nudo in piedi con lo sguardo rivolto verso il centro della piazza e l’Arengario.
La statua originariamente dedicata “alla gioventù d’Italia” ed “al ricordo della grande Vittoria” fu successivamente, non è ben chiaro da chi e perché (forse da Achille Starace per ribadire il suo potere sul recalcitrante fascio bresciano), ribattezzata “Era Fascista” e sarà questo nome posticcio ed incoerente a segnarne la sorte (in realtà per i bresciani l’opera di Dazzi sarà sempre e solo il Bigio ed è così che ancora oggi è conosciuta da tutti).
Nel settembre 1945, dopo il tentativo dei partigiani di farlo saltare con la dinamite, il sindaco Ghislandi, installato dal CLN e sottoposto all’autorità militare alleata, decise la rimozione della statua motivandola con ragioni politiche ed estetiche, inaugurando così la riconquistata democrazia con un atto politico di censura di un’opera d’arte.
Da allora il povero Bigio giace nel deposito comunale di via Rose di Sotto ed ogni tentativo di liberarlo si è rivelato inutile, scatenando polemiche tanto pretestuose quanto violente.
Un inconcludente ed astratto dibattito politico/ideologico dai toni esagerati ed eccessivi (“deriva nostalgica”, “effetti dirompenti”, “rischio di una nuova Predappio”) ha ridotto grossolanamente la questione all’alternativa tra accettazione o rifiuto di un (presunto) “simbolo fascista”, evitando di valutare seriamente quale sia l’interesse concreto della città e ignorando totalmente qualsiasi riferimento culturale.
Nessuno, infatti, si chiede se valga la pena di ripristinare, per quanto possibile dopo i danni della guerra e anche del dopoguerra, una delle migliori realizzazioni di uno dei più importanti movimenti culturali ed artistici del ‘900 italiano, tra l’altro oggetto di riscoperta e studio in tutto il mondo.