Nel 1911 Giovanni Giolitti, capo del governo, doveva fare fronte a due opposti estremismi, socialisti e nazionalisti. Dopo avere ammorbidito i primi con alcune riforme, si occupò degli altri.
di Giordano Bruno Guerri da del 29/07/2017
I nazionalisti pretendevano che l’Italia incassasse un’ipoteca diplomatica che l’Italia aveva sulla Libia, e nel settembre del 1911 venne dichiarata guerra al sultanato di Costantinopoli, ovvero alla Turchia. Avremmo conquistato uno «scatolone di sabbia», come dicevano gli oppositori dell’impresa: non si sapeva ci fosse il petrolio, ma era pur sempre una consolazione per la sconfitta di Adua e la perdita della Tunisia, che la più abile diplomazia francese aveva saputo conquistare senza combattimenti. (Ci ricorda qualcosa accaduto di recente?).
Come tutte le guerre coloniali, l’impresa fu gradita alla maggior parte dell’opinione pubblica. L’impero e le colonie, nella mente dei più, dovevano rappresentare un rimedio alla tragedia dell’emigrazione: oltre 600mila italiani che ogni anno, nel primo decennio del secolo, prendevano la via dell’estero. Persino il mite Giovanni Pascoli pronunciò, dal palco del teatro comunale di Barga, il celebre discorso «La grande proletaria si è mossa». La conquista avrebbe aggiunto alle verdi, ma lontane, colonie eritree e somale un territorio di oltre 1.800.000 chilometri quadrati (oltre cinque volte l’Italia), popolati da appena 800mila abitanti. Il territorio abitabile era pari alla Lombardia e al Piemonte uniti, ma Cirenaica e Tripolitania erano lontane fra loro, con comunicazioni molto difficoltose.
Anche gran parte dei cattolici ebbe un trabocco di passione nazionale, vedendovi una lotta contro l’infedele. L’Osservatore romano dovette ricordare che la guerra era «un affare assolutamente politico, al quale la religione, come tale, rimane perfettamente estranea». Se la religione non c’entrava, c’era in ballo parecchio denaro: circa ottanta banche cattoliche avevano molti interessi nella finanza, nel commercio, nell’industria, nelle assicurazioni, e avrebbero tratto vantaggio dal conflitto. La più importante, il Banco di Roma aveva interessi rilevantissimi in Libia, e aveva addirittura promosso la guerra manovrando con il governo e con gli industriali.
A opporsi all’impresa fu una minoranza: per esempio Gaetano Salvemini, storico, socialista, meridionalista, e Benito Mussolini, che già alle prime avvisaglie di guerra aveva scritto: «Se la patria menzognera finzione che ormai ha fatto il suo tempo – chiederà nuovi sacrifici di denaro e di sangue, (…) la guerra fra le nazioni diventerà allora una guerra fra le classi»; insieme al futuro capo socialista Pietro Nenni, all’epoca repubblicano, per protesta si sdraiò sui binari della ferrovia, iniziativa che costò a entrambi diversi mesi di carcere. All’opposizione c’era anche il giovanissimo mazziniano Italo Balbo.
Il conflitto durò circa un anno, molto più del previsto e del prevedibile: «Ho sempre dovuto falsificare i bollettini degli scontri in Libia – confidò in privato Giolitti -, per non dimostrare che si vinceva solo quando si era in dieci contro uno». La guerra costò, secondo i dati ufficiali, 512 milioni: una cifra spropositata. Anche i socialisti riformisti pagarono caro il loro appoggio all’impresa: al congresso di Reggio Emilia del luglio 1912 la corrente riformista fu spazzata via dai massimalisti e Mussolini ottenne la direzione dell’Avanti!, il suo trampolino di lancio.
L’abbandono in cui venne tenuta la colonia nei primi dieci anni aveva ridotto la reale occupazione italiana a pochi chilometri quadrati: il resto del Paese era controllato dai «ribelli», raccolti attorno all’ordine religioso dei senussi, che combattevano una guerriglia estenuante e continua. La «riconquista» avvenne sotto i governatorati militari e fascisti – di De Bono (1925-29) e di Badoglio (1929-33), soprattutto a opera di Rodolfo Graziani, in Libia dal ’21, comandante delle truppe dal ’30 e vicegovernatore della Cirenaica dal 1932. La crudeltà di Graziani fu tale da inficiare molto l’immagine di un popolo italiano buono e amichevole verso i popoli che avrebbero dovuto riceverne la civiltà. Balbo ristabilì buoni rapporti con la popolazione, con un governo tollerante. Non riuscì, invece, a trovare il petrolio, che pure fu cercato tenacemente. Le nostre trivelle non arrivavano abbastanza in profondità, come avrebbero fatto nel secondo dopoguerra quelle americane.
Sarebbe cambiata, la storia, se lo avessimo trovato? Probabilmente no: divenendo ancora più importante quel fronte, dal 1940 gli angloamericani avrebbero messo ancora più impegno a vincere lì, come avvenne.
@GBGuerri