Molto ci sarebbe da dire sul recente programma di storia per l’ultimo anno dei licei, varato dal ministro Mariastella Gelmini, grazie alla fattiva collaborazione del suo consigliere Max Bruschi. Peccato, però, che grazie alla perdurante anomalia della cultura italiana quella discussione sarà destinata ad arenarsi nelle secche del pregiudizio ideologico.
Eugenio di Rienzo su Il Giornale del 2 aprile 2010
Nell’intervento di Simonetta Fiori, apparso pochi giorni fa su Repubblica, si metteva in evidenza il grande scandalo di un’iniziativa ministeriale che non aveva neppure nominato la Resistenza tra gli eventi realmente significativi del Novecento. A poco servirà, penso, per attenuare tanto sdegno, la risposta dello stesso Bruschi che, incalzato dalla Fiori, ha coerentemente risposto che la Resistenza appunto si trova a essere naturalmente compresa nel nucleo tematico dedicato alle «tappe e formazione dell’Italia repubblicana». Per nulla persuasa da quella precisazione, Manuela Gizzoni, capogruppo del Pd nella Commissione Istruzione della Camera, ha insinuato, infatti, che l’obiettivo della Gelmini e del suo brain trust intendeva azzerare nei curricula scolastici proprio il periodo storico che ha dato vita «alla Costituzione e alla nostra Repubblica».
Calma e gesso e cerchiamo di ragionare. Nessuno vuole impedire di considerare la Resistenza come un momento rilevante della storia italiana. Quello che invece l’indirizzo ministeriale si propone di fare è di riportarla alle sue giuste dimensioni che sicuramente non sono paragonabili ai grandi temi della storia contemporanea, caratterizzanti i percorsi didattici del quinto anno dell’insegnamento liceale: «i due grandi conflitti mondiali, la rivoluzione russa, fascismo e nazismo, la Shoah e gli altri genocidi del XX secolo, la guerra fredda, il confronto ideologico tra democrazia e comunismo, la nascita delle grandi organizzazioni internazionali (l’Onu e la Ce), il crollo dell’Urss, la rinascita della Cina e dell’India come potenze planetarie». Questa decentralizzazione della Resistenza è del tutto coerente con le nuove prospettive storiografiche che un esponente di spicco dell’antifascismo come Leo Valiani anticipava in una lettera inviata nel giugno del 1967 a Renzo De Felice.
In quella corrispondenza, Valiani sosteneva che l’interpretazione della guerra di liberazione non poteva continuare a basarsi sulla visione mitologica elaborata da dirigenti partigiani. Né il comunista Luigi Longo, né Roberto Battaglia, né Claudio Pavone e i loro epigoni, autori di alcune famose storie della Resistenza, a forte tendenza ideologica, possono essere credibili analisti di quella stagione, dato che il «reducismo rosso», se è funzionale ad alimentare i fuochi fatui di una memoria divisa, risulta invece estraneo alla possibilità di compiere un’obiettiva ricostruzione della guerra civile del 1943-45. La Resistenza va invece ripensata a freddo, concettualizzata dal lavoro dello storico, scomposta nelle sue molte varianti, alcune da accettare, altre da rifiutare decisamente sul piano politico e civile.
Disaggregando la Resistenza nelle sue diverse componenti, riportandola al suo autentico significato di conflitto intestino, è anche possibile cogliere le ragioni dell’esternazione dell’ex presidente del Senato Marcello Pera, che nel dicembre del 2004 aveva sostenuto l’impossibilità di basare il patto fondativo della Repubblica sull’antifascismo comunista per le caratteristiche decisamente totalitarie e antinazionali di quel movimento. Ma di più e meglio si potrebbe fare per comprendere il vero significato dell’intervento di Pera, paragonandone i contenuti a quelli che emergono dalla lettura del carteggio degli antifascisti Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi degli anni 1944-1948.
Non voglio soltanto riferirmi alla critica liquidatoria di Rossi sull’opposizione al secondo regime di Mussolini composta nella gran massa da «disertori (fra i quali molte camicie nere, collaborazionisti, guardie carcerarie)», poi smisuratamente ingrossatasi dai molti che avevano «voltato gabbana», poco prima del 25 aprile, «proprio nelle ultime settimane quando la partita era ormai perduta e che si presentano ora come “salvatori della patria”». Mi rifaccio, invece, ai giudizi di Salvemini sulla totale estraneità del comunismo, del socialismo di Nenni, del Partito d’azione nei confronti di un normale decorso della vita democratica italiana. Quelle valutazioni toccavano uno dei loro momenti più significativi nel rapporto epistolare con Rossi del 13 febbraio 1945, dove era contenuta una violenta critica dell’ala azionista e comunista del Cnl che aveva sostenuto il progetto di «una democrazia progressiva che corrisponde alla formula “tutto il potere ai soviet” dei bolscevichi russi nel 1917».
Eppure proprio Salvemini, quando si accendevano i fuochi della competizione elettorale del 1946 e del 1948, avrebbe deciso di riservare queste osservazioni a una ristretta cerchia di amici politicamente affidabili, per non favorire l’affermazione della Dc ed evitare l’instaurarsi in Italia di un’altra «repubblica di Salazar, dominata dai preti». Si configurava in questo modo un pericoloso atteggiamento mentale, destinato a radicarsi nella cosiddetta opinione pubblica democratica fino ai nostri giorni. Ragioni di opportunità di parte spingevano, infatti, la gran parte del ceto intellettuale a una «consegna del silenzio» su alcuni degli episodi più scottanti della nostra storia recente, ormai non più tollerabile all’interno di un serio progetto pedagogico nazionale come quello proposto dal ministro Gelmini e dai suoi collaboratori.
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Inserito su www.storiainrete.com il 3 marzo 2010