HomeIn primo pianoLa morte di Mussolini. Massimo Caprara: "Togliatti sapeva"

La morte di Mussolini. Massimo Caprara: “Togliatti sapeva”

Quarant’anni fa moriva il ragionier Walter Audisio, ex deputato e partigiano, passato alla storia come il “Colonnello Valerio”, ufficialmente l’uomo che sparò e uccise Benito Mussolini il 28 aprile 1945. Già nel dopoguerra però le dichiarazioni di Audisio mostrarono tutta la propria inconsistenza, messe alla corda da incongruenze e nuove testimonianze. Nonostante la tenacia di alcuni a diffondere la “versione di Audisio” (incluso il recentemente scomparso Carlo Lizzani col suo discutibile “Mussolini ultimo atto” del 1974)  nessuno storico minimamente addentro alle cose di Dongo e dintorni crede a quanto raccontato in più occasioni da Audisio (che si smenti oltretutto da solo più volte), evidentemente un “uomo di paglia” usato per coprire altro e altri. Tra le tante testimonianze possibili ecco quella dell’ex segretario di Palmiro Togliatti, Massimo Caprara, pubblicata dal mensile “Storia Illustrata” nel 1996. (F. An.)

Fu Aldo Lampredi il vero autore dell’esecuzione del Duce. Dopo le ennesime rivelazioni sul giallo del 28 aprile 1945, la verità arriva ora da Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, che in una testimonianza esclusiva a Storia Illustrata ricorda il verbale del febbraio 1947 quando il PCI decise di divulgare la “versione Audisio” e lo stesso leader comunista gli confidò come erano andati i fatti.

di Massimo Caprara da “Storia Illustrata” – agosto-settembre 1996

Nel palazzo delle Botteghe Oscure il potere fu concentrato tra il secondo e il quarto piano. Più in basso, gli uffici del segretario generale Palmiro Togliatti. Più in alto, quelli del segretario di organizzazione, Pietro Secchia. Sempre al secondo piano, ma nell’angolo meno in vista, le due stanze disadorne di Luigi Longo, vicesegretario generale. Ho lavorato in questo triangolo umano e policentrico (a ognuno dei tre spettava una fetta cospicua della storia e della gestione del PCI dall’antifascismo alla guerra, alla ricostruzione) dal momento in cui l’immobile del costruttore Alfio Marchini venne ceduto al Partito Comunista, ossia poco dopo l’arrivo di Togliatti da Mosca e da Napoli. Dall’ufficio del segretario generale mi divideva una sottile porta a vetri. Lui non aveva il telefono e si serviva qualche rara volta del mio. Ho sentito per anni i suoi passi nella stanza, mentre passeggiava prima di concentrarsi a scrivere articoli impegnativi con l’inchiostro verde, usato soltanto per gli affari culturali. L’ho visto entrare con la sua borsa gonfia, ma ordinata, di libri e carte, ogni mattina, alle 7: con il suo passo mai affrettato, la persona eretta ma non fiera, lo sguardo quasi affabile, concentrato e mai distratto, vigile, semmai incline a un filo d’ironia.
Non ha torto il lettore che sentirà in questo ricordo più di un’eco di nostalgia, di umana dedizione e complicità. Erano quelli, dal 1944 al 1945 e subito dopo, gli anni in cui anche i comunisti italiani conobbero, a modo loro, l’impegno e l’ardore di lavorare per una causa rinnovatrice che valesse la pena di essere vissuta integralmente.

Spesso Togliatti, infervorato con misura, continuava i suoi dialoghi con gli altri componenti la segreteria del partito (soprattutto con Longo), uscendo dalla sua stanza e trattenendosi nella mia, che era grande e spaziosa, sistemata in modo che a essa accedevano solo coloro che avevano superato tutti i rigorosi controllori del secondo piano, in particolare un piccolo muratore della Garbatella di Roma che fingeva di leggere l’Unità senza mai cambiare pagina.
Sarebbe stato difficile per Togliatti e gli altri suoi interlocutori lasciare una frase a metà, sfumare un concetto, velare un’informazione, come per me sarebbe stato difficile non sapere, non capire, non conoscere. Dal quarto al secondo piano, per entrare nel mio ufficio come latore di comunicazioni da consegnare a Matteo Secchia (fratello di Pietro) che manteneva i contatti con l’ambasciata sovietica di via Gaeta e stava a un tavolone d’angolo, scendeva spesso Walter Audisio, che era poco più di un manichino inesistente, privo com’era di quel minimo di personalità che poteva solleticare la disponibilità di giovane spugna di sensazioni che allora ero io. Appena entrato, Audisio ripeteva in piemontese una frase che divenne per noi della segreteria uno stereotipo farsesco. Alludendo alla sobria gravità di Togliatti, diceva: «Pievla nen, matòc, an quen i ian rubai la merenda!», «non prendetevela, ragazzi, chè oggi gli hanno rubato la merenda». Non faceva ridere neppure le dattilografe che, a tratti, s’affacciavano all’altra porta.

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Grande fu, perciò, la mia meraviglia, quando, una mattina del febbraio 1947, nel verbale della riunione della segreteria del partito, di cui ero unico estensore, mi venne dettato testualmente: «Il colonnello Walter Audisio conceda le interviste come esecutore della sentenza di condanna a morte del Comitato di liberazione nazionale nei confronti di Mussolini. Preferire i giornalisti nord-americani». Lessi in quest’ultima precisazione il tipico atteggiamento sarcastico di Togliatti verso giornalisti e informatori dei servizi di sicurezza alleati che egli era solito definire “il gatto e la volpe”, quando gli si presentavano in due, accoppiati nella superficialità. Fu scelto un certo John Pasetti, che era corrispondente da Roma di Radio Losanna. Audisio venne giù da noi per mostrarsi come s’era vestito per essere cinematografato. Togliatti mi disse di dirgli che non intendeva in quel momento riceverlo: gli sarebbe bastato vederlo sui rotocalchi. «Si astenga dalle battute», concluse come raccomandazione. Fu così che il PCI rivelò una menzogna, destinata a durare ufficialmente come verità comunista almeno sino al 1953, quando la “Storia della Resistenza” del militante Roberto Battaglia, la sostenne a pagina 549 del suo volume edito da Einaudi.

Assai prima, le mie perplessità vennero soddisfatte da Togliatti quando, innocentemente conversando, egli consentì con le mie obiezioni. Non è lui. Abbiamo deciso di coprire il vero autore dell’esecuzione di Mussolini che è Lampredi», mi disse, senza mai accennare alla sorte della Petacci. Aldo Lampredi, che lavorava nell’apparato di Secchia al quarto piano come Audisio era un personaggio bieco e circospetto, inchiodato a una scrivania. Entrava e usciva dall’ascensore di servizio delle Botteghe Oscure, sovente con un basco senza più colore, scivolando dall’ingresso, evitando incontri e, soprattutto, foto mai desiderate. Quanto Audisio fu sempre lui stesso, ossia il faceto ragioniere dell’azienda di cappelli Borsalino di Alessandria, Lampredi volle essere invece, e fu, qualsiasi altro, senza nome né volto. Già prima Lampredi personificava nella mia immaginazione la figura che di fatto fu, dell’agente del Komintern, la struttura tecnico-militare e organizzativo-politica dei comunisti di fede moscovita del mondo intero dalla quale venivano spediti nei vari focolai insurrezionali d’Asia o d’Africa, per guidare movimenti popolari o sanguinose rivolte. Meno sofisticato di un personaggio uscito dalle pagine di Andrè Malraux, il romanziere francese che fu in Cina dal 1923 al 1927 e fece una descrizione degli insorti kominternisti e che, come aviatore, condivise la causa degli insorti spagnoli nel 1926, Lampredi fu, sin dall’inizio, un attore credibile per il ruolo esecutivo che mi svelò Togliatti.
Egli fu, infatti, simile a quel Jackson Mornard Vaudendrecht, ovvero Ramon Mercader, che riuscì ad introdursi nel fortino-laboratorio a Cayoacan, in Messico, dove visse e fu massacrato nell’agosto del 1940 a colpi di piccone Lew Davidovic Trotsky, condannato a morte dalla staliniana Ghepeu (l’Amministrazione politica di stato). Di lui fu anche Jorge Semprùn a scrivere, nel 1969, nel drammatico e rivelatore “La deuxième mort de Ramon Mercader”.

Non trovai allora, né dopo, né inedito, il caso Lampredi. La sua designazione costituì una soluzione strettamente kominternista. Vero è che la Terza Internazionale, da cui il Komintern dipendeva, venne sciolta con atto ufficiale e pubblico datato 15 maggio 1943.
Churchill e Roosevelt ne avevano chiesto la dissoluzione ripetutamente in cambio dell’apertura del secondo fronte, subito dopo la schiacciante sconfitta subita dai nazisti a Stalingrado. Ma è altrettanto vero che il nucleo d’acciaio del Komintern, composto di Dimitrov, Manuilskji, Torez, Kuusinen, ed Ercoli-Togliatti, resistette a lungo e fu raggruppato nel cosiddetto “Istituto 200” che costituì la nuova centrale operativa e dirigente. Lo stesso Hotel Lux, che aveva ospitato i leader internazionali, rimase ancora in vita come asse ereditario di una struttura internazionalista ancora a lungo influente e dominante.

Alcune domande, comunque, vanno soddisfatte. Perché Lampredi non fu subito fatto uscire dall’ombra e rivelato come il fatale protagonista dell’operazione di Giulino di Mezzegra? Su di lui si intrecciò una rete a fili doppi e tripli di rimozione e salvaguardia. Non fu immediatamente individuato come l’autore protagonista della scarica fatale perché non si accumulasse su di lui l’aureola del giustiziere-eroe. Non a caso Lampredi era l’unico del genere qualitativamente in grado di gestirsi senza goffaggine, per capacità intellettiva ed esperienza politica, un ruolo che dentro e fuori del partito avrebbe potuto balzare sulla ribalta, materializzarsi in pericolosa personalizzazione, competere in popolarità postresistenziale con i capi storici del PCI. L’operazione affidata a Lampredi fu considerata come un’operazione delicata ma pur sempre di polizia e tale avrebbe dovuto rimanere, nei limiti circoscritti, con figuranti di secondo piano del libello di Audisio: forse, anche, senza la clamorosa esibizione-vilipendio dei cadaveri in piazzale Loreto a Milano.

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Inoltre, perché la designazione di Lampredi fu sulle prime evitata e mantenuta segreta? Chi conosce usi e costumi del Komintern non se ne può meravigliare. In un libro assai vivace e ricco di notizie di prima mano, Ruth von Mayenburg, la nobildonna tedesca nata a Teplitz-Schönau, nella regione dei Sudeti, che fu moglie del leader comunista austriaco Ernst Fischer e che con lui visse nell’Hotel Lux di Mosca dal 1938 al 1945, ha raccontato la storia di Richard Sorge. Agente del Komintern, egli venne inviato in Estremo Oriente come giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung. La sua abilità fu tale da farlo diventare intimo dell’addetto militare tedesco Von Otto, e da poter così capire e trasmettere in cifre a Mosca persino la data esatta prevista per l’attacco nazista alla Polonia. Scoperto, venne impiccato dai nipponici il 7 novembre 1944, senza che nessuno, mai, fosse riuscito a scoprire la sua remota identità. Neppure la sua più diretta collaboratrice, la bella finlandese Aino Kuusineen, pseudonimo Ingrid, che pure proveniva dalla Quarta Sezione spionistica del generale Berzin, venne informata sull’autentica personalità del suo referente che regolarmente incontrava nel locale-birreria di Tokyo “Fledermaus”, preferito da Sorge. L’avere eseguito i suoi compiti con zelo ed estrema riservatezza non risparmiarono comunque neppure alla brillante Aino 17 anni di gulag. La prudenza più estrema accoppiata a norme cospirative diligentemente osservate protessero con lo stesso impegno di principio, fino la momento necessario, sia Sorge sia Lampredi. Ma perché proprio lui, Lampredi, e non altri? Il Komintern fu una struttura altamente specializzata, gerarchizzata, con un vertice esclusivamente politico di dirigenti di vari continenti. Fu composto di reparti di propaganda scritta e orale, di pubblicazioni ideologiche, come di decrittazione, di contraffazione di documenti, di addestramento paramilitare: un vero e proprio stato sotto il controllo dello stato, separato in compartimenti stagni, non comunicanti fra loro se non attraverso il vertice. Il Komintern comprese anche una categoria particolarmente determinata e sperimentatissima di esecutori materiali e di condanne. Essi provenivano dalle file del “Comitato straordinario di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio” (Ceka), nato nel 1917 e affidato alla direzione di Feliks Dzerzinskji, “il cavaliere della Rivoluzione”, come lo definì l’agiografia bolscevica che non temeva l’orrido. A essa fu affidata la realizzazione del “Terrore rosso”, come “resa rivoluzionaria dei conti con i controrivoluzionari”. Cekisti furono chiamati gli addetti al colpo alla nuca, gestori senza pietà di un ruolo che nulla aveva a che fare, nella pratica, con quelli di dirigente politico. Longo non fu un cekista, neppure in Spagna nel 1936, dove pure avvennero spietate liquidazioni di anarchici. Lampredi, assai presumibilmente, sì. I loro reciproci incarichi non furono mai confusi a ciascuno spettando il suo, fanaticamente, duramente vissuto. Fu una divisione di compiti, non una graduatoria fra deboli e forti.

Se la decisione fu kominternista, essa fu automaticamente togliattiana, nel senso che non poteva non coinvolgerlo. Anche dopo il suo esteriore e strumentale scioglimento, il Komintern continuò ad avere il suo indiscusso prestigio e la sua altissima collocazione nei quadri della rivoluzione mondiale. Non mi accadde mai di accompagnare Togliatti a Mosca, senza vederlo scendere dal vagone-letto per passare dinnanzi a un plotone che gli presentava le armi lungo un tappeto rosso, come per i capi di stato. Fu assolutamente impossibile che la fine di Mussolini non venisse scrupolosamente prevista in tutte le sue possibili circostanze, discussa via radio con Togliatti e da lui sanzionata. Del resto, chi fu il primo a rendere pubblica la decisione comunista di passare per le armi i gerarchi fascisti di grado più elevato, a cominciare da Mussolini? La condanna è esplicitamente contenuta in un discorso lanciato da Radio Milano Libertà che trasmetteva da Mosca. «Chi continua a servire il fascismo oggi, sa la sorte che lo attende. Egli è condannato a morte e presto o tardi la sentenza verrà eseguita». Questo messaggio porta la data del 4 gennaio 1944 ed è firmata da una voce: quella di Mario Correnti. Correnti altri non è che Palmiro Togliatti. “Parli chi ha taciuto” si reclama oggi da varie parti affinché le coincidenze, le divergenze, le contraddizioni sugli “Ultimi cinque secondi di Mussolini” (che è l’argomento del recente, accurato e ben scritto libro di Giorgio Pisanò) vengano dissolte. Nessun’altra versione oltre a quella che riguarda Lampredi circolò mai nel gruppo più ristretto che lavorò con Togliatti. Lo scritto di Lampredi stesso, pubblicato su l’Unità! del 23 gennaio di quest’anno, conferma l’ipotesi principale divulgata dal PCI a suo tempo e ora arricchita «di particolari di non poco interesse storico, politico e umano», come ha commentato l’allora direttore Walter Veltroni. Non so né prevedo se e cosa possa uscire dagli archivi comunisti di casa nostra o di altrove. Un suggerimento lo vorrei dare. Diffido da questi tristi figuri che ancora oggi si aggirano a Mosca, nei pressi dell’ex piazza Dzerzinskji, e si offrono di compilare e antichizzare qualsiasi documento anche riservatissimo dell’ex Nkvd, il corpo della sicurezza sovietica di stato, o del KGB, che a esso successe nel 1954. Gli archivi dell’ex partito sovietico e dello stesso Komintern hanno subito presumibilmente, ma realisticamente, molti passaggi di mano interessati. Consiglierei avvedutezza e prudenza, pur senza rinunziare alla necessità di far luce completa per la storia. Tenendo conto di un’ultima osservazione capitale. Per il Partito comunista italiano, il modo migliore di non far circolare notizie ritenute inopportune fu uno solo, e fu un metodo sovrano: non scriverle.

 

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MUSSOLINI UNA MORTE DA RISCRIVERE

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