Ossari, sacrari e templi votivi abbandonati o in pezzi. Così ringraziamo gli uomini che hanno fatto la nostra storia.
di Stefano Filippi del 21 settembre 2017
Le pietre dei gradoni sono sconnesse, i marmi sbrecciati. La tomba del Duca d`Aosta, nell`immenso piazzale da dove partono le scalinate verso le tre croci, è transennata. Inaccessibile, come altre aree laterali, per «parziale cedimento della pavimentazione». Moltissime lastre di bronzo che chiudono le sepolture dei soldati sono danneggiate dalla ruggine e dalle infiltrazioni. E sono fortunati, questi 40mila militi, perché non sono ignoti. Nomi, cognomi, grado e corpo di appartenenza sono incisi sulle placche. Gli ignoti giacciono in cima alla collina di Redipuglia, nel sacello sotto le croci nere, senza nemmeno un fiore. Dai vasi di pietra bianca spunta soltanto qualche rametto lasciato seccare.
A Redipuglia riposano oltre 100mila caduti della prima guerra mondiale. È il maggiore cimitero militare italiano e uno dei più vasti d`Europa. Porta un nome che dovrebbe incutere un certo rispetto: sacrario. «Luogo sacro», si legge sui cartelli piantati all`ingresso di decine di ossari sparsi lungo il fronte del `15-18 dalla val d`Adige all`Isonzo. Sacro alle famiglie dei morti e, in teoria, a un Paese nato dal sacrificio di quelle esistenze, ma che questa memoria non coltiva. Il viaggio del Giornale nei principali monumenti innalzati a ricordo dei caduti della Grande guerra ha questo elemento in comune: non la memoria, ma la trascuratezza.
Il sacrario goriziano, sorto sul confine tra le linee italiane e austroungariche, ne è l`emblema. Ma non è una questione di simbolismi: qui c`è morte, ossa, sangue, dolore, lutto. C`è una generazione mandata a farsi sparare perché chi è venuto dopo potesse vivere. C`è il germe di un`unità e di una libertà date ormai per scontate. Eppure il dovere di non dimenticare è evaporato. Ne resta qualche sprazzo giusto alle feste comandate. Il 4 Novembre politici e vertici militari sfilano in parata. A Redipuglia viene ogni anno il presidente del Senato. Vi ha celebrato la messa papa Francesco il 13 settembre di tre anni fa, anniversario dello scoppio del conflitto. In primavera i pullman scaricano scolaresche svogliate. La memoria sembra una faccenda da addetti ai lavori o da ragazzini, ma è scomparsa dal tessuto normale della vita. «Nel cuore nessuna croce manca»: il poeta-volontario Giuseppe Ungaretti si struggeva in San Martino del Carso, una lirica scritta poco lontano da qui. Un tempo ogni scolaro di ogni angolo d`Italia mandava a memoria quella poesia e qualche professore si spingeva a raccomandare la lettura del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern o di Addio alle armi (Ernest Hemingway si arruolò volontario sul fronte veneto-giuliano). Oggi la memoria è scontata. Ed è sparita pure la cura dei luoghi della memoria.
TRANSENNE E DIVIETI
Pezzo a pezzo, Redipuglia si sgretola e non c`è centenario che tenga. Lo Stato ha destinato fondi per celebrarlo e recuperare i territori segnati dalla guerra, ma sulle scalinate che risalgono le pendici del monte Sei Busi non v`è traccia dei 10 milioni di euro destinati al Friuli Venezia Giulia per i cinque anni di commemorazioni (28 i milioni stanziati complessivamente per l`intero Nordest). Crepe, sconnessioni, erbacce accompagnano la salita. Il monumento funebre al Duca d`Aosta è chiuso dal 6 aprile scorso e l`unico intervento finora svolto è stato mettere le transenne. Il museo dietro il sacello fa orari d`ufficio. Al di là dei filari di cipressi il grande parco circostante, una superficie di circa 100 ettari, dà una sensazione di trascuratezza, tra erba non tagliata e sterpaglie che contrastano con le scritte che accolgono i visitatori. «Non curiosità di vedere ma proposito di ispirarvi vi conduca», si legge su una lapide. Il dovere della memoria, disatteso da chi dovrebbe alimentarlo. Non va meglio a Oslavia, una frazione di Gorizia a qualche chilometro dalla frontiera slovena. Nel sacrario sono sepolti 5.000 soldati e volontari della Giulia e della Dalmazia. All`ingresso non esiste neppure il parcheggio: a lato della provinciale del Collio si trova un giardinetto con qualche albero e panchine di marmo. La scalinata è tutta sconnessa, le erbe infestanti proliferano, le placche che dovrebbero fare da guida ai visitatori sono scolorite fino a essere illeggibili. I disabili possono entrare più avanti, dall`accesso riservato al personale militare, ma non vi è traccia di scivoli o piattaforme mobili per superare le scale. Nei sacrari della prima guerra mondiale le barriere architettoniche non sono state abbattute: dimenticanza nella dimenticanza.
L`UNITÀ DEL SALUME
Il senso di come vanno le cose è condensato nel cartello stradale di Valli del Pasubio, il Comune vicentino al confine con Trento che prende il nome dal monte dove si combatté una delle più sanguinose campagne militari. Il Pasubio segna il punto più meridionale raggiunto dall`esercito austriaco nella Spedizione punitiva del 1916: se avessero sfondato lì, le truppe di Cecco Beppe sarebbero dilagate verso il Po. La resistenza dei battaglioni alpini fu leggendaria: le penne nere presero posizione il 24 maggio 1915 e respinsero l`ultimo attacco austriaco il 26 settembre 1918. Oltre 37mila soldati persero la vita.
Le pendici sono traforate dalle gallerie ora percorse dagli appassionati di trekking, il sentiero più famoso è stato battezzato Strada degli eroi, la statale 46 che sale da Schio è la mulattiera militare asfaltata. Tutto da queste parti evoca il valore dei 5.146 caduti italiani sepolti (quasi tutti senza nome) nell`ossario che domina la valle del Leogra. Tutto, tranne la toponomastica. Perché sul cartello che accoglie auto, pullman, moto e bici che si arrampicano sul monte sacro alla Patria è scritto «Paese della sopressa e delle acque minerali».
Non c`è nulla da fare: la saga della sagra e l`epopea del chilometro zero sono il vero collante dell`Italia di oggi. Valli del Pasubio è un`etichetta per salami e bottiglie, Asiago è un formaggio, il Grappa non richiama il mausoleo appollaiato a 1.800 metri di quota ma il distillato più famoso del Nordest, anche se la grappa non c`entra nulla con il massiccio prealpino fra Vicenza, Treviso e Belluno. Del resto il mausoleo di Asiago in cima al colle del Leiten ormai è poco più che la meta di picnic (inutili le proteste di sindaci e presidenti di associazioni d`arma) o delle passeggiate dei pensionati in villeggiatura sull`altopiano. L`immenso arco di trionfo ospita i resti dei caduti e il museo bellico. Il quale non ha biglietto a differenza del Pasubio, dove si arriva con più fatica e alla fine bisogna pagare per il parcheggio e per vedere la sala degli eroi e la ricostruzione delle postazioni di montagna.
Nemmeno sul Grappa è agevole arrivare. Le strade portano i nomi dei generali che guidarono le operazioni: Cadorna, Giardino, Angelica. Vecchi sentieri militari stretti, tagliati nella roccia, spesso selciati male, pieni di sassi caduti dalle pendici del monte.
GLI SMEMORATI
Greggi di pecore e mandrie di vacche la fanno da padrone. L`ossario sulla Cima Grappa è suggestivo, il cimitero italiano digrada a gradoni che si affacciano sulla pedemontana veneta sovrastati dal sacrario austroungarico. Gli appostamenti militari sono stati sistemati e sono visitabili. Ci vogliono due ore e mezzo per compiere l`intero viaggio tra cannoni, mitragliatrici, trincee, mulattiere. Ma non ci sono guide ad accompagnare gli ardimentosi, soltanto un cartello iniziale con lo schizzo dell`itinerario. Poi ci si arrangia.
Gli alpini sono tra i più vivi nel nutrire il fuoco del ricordo. Lo scorso maggio l`Adunata di Treviso, la numero 90, è partita dal Monte Grappa. I ritrovi di gruppi di penne nere sui territori dei combattimenti sono un modo per commemorare chi non c`è più ma anche per rafforzare identità, unità, spirito di corpo. In qualche modo sono gli avamposti di un turismo della memoria che, per esempio, in Francia conduce milioni di persone sulla Marna, a Verdun, a Ypres, per non parlare della Normandia. Il potenziale in Italia sarebbe enorme. Secondo una ricerca della società specializzata Jfc, soltanto il 10 per cento di chi si reca in pellegrinaggio ai sacrari lo fa per storia familiare mentre il 15 per cento sono studenti in gita. Il resto sono persone mosse da interesse storico e culturale. C`è attenzione per questi luoghi ma, oltre alla cura, è assente la promozione, il marketing territoriale, la voglia di far conoscere. Il 41 per cento di queste località non offre alcun servizio turistico e appena un 10 per cento o poco più dei visitatori spende qualcosa per comprare libri o ricordi. A Schio, per fare un esempio (ma il conto di casi analoghi si perde facilmente), si fatica a trovare una freccia stradale per il Pasubio, il Cimone, l`Ortigara mentre è largamente pubblicizzato l`itinerario di archeologia industriale nelle vecchie tessiture. Nel festival della smemoratezza mancano anche le semplici indicazioni stradali.