Nella storia della finanza ci sono dei momenti in cui non c’è limite al peggio. Proprio come negli anni ’30 del 1300, quando fallirono i due più importanti istituti di credito di allora, i banchi dei Bardi e dei Peruzzi, schiacciati rispettivamente da un debito di 900mila e 600mila fiorini. Come mai? Re Edoardo III d’Inghilterra firma l’armistizio di Esplechin che sancisce il fallimento delle spedizioni contro la Francia, sovvenzionate dai fiorentini. Re Roberto di Napoli, preoccupato di questa mossa, ritira i suoi depositi presso i banchieri toscani, e come se non bastasse viene dichiarata la trasferibilità dei titoli di debito pubblico, che fa crollare il loro valore. Non solo: in quegli stessi anni le inondazioni e la peste bubbonica dimezzeranno la popolazione.
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di Alessandro Marzio Magno, da Linkiesta del 5 febbraio 2012
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«Che lavoro schifoso!» «Potrebbe esser peggio». «E come?» «Potrebbe piovere». Quella tra Gene Wilder e Marty Feldman, in Frankenstein Junior, è uno dei dialoghi più famosi della storia del cinema. Stanno scavando in un cimitero, di notte, per disseppellire la bara del candidato mostro; in effetti si mette subito a piovere.
Nella storia della finanza, ma più in generale nella storia, ci sono stati dei momenti in cui è andata proprio così: un evento negativo si è susseguito a un altro, generando una tremenda concatenazione recessiva. È esattamente quello che accadde a Firenze verso la metà del Trecento, quando fallirono le due più grandi banche dell’Europa di allora, i Peruzzi e i Bardi.
Le due famiglie fiorentine mettono in piedi un sistema bancario che non ha eguali: hanno filiali in tutta Europa, prestano denaro a mercanti e regnanti, la loro rete finanziaria fa impallidire il ricordo della Tavola del senese Orlando Bonsignori, che un secolo prima era stata la più importante banca europea. Ma Firenze, negli anni Trenta del Trecento, si trova coinvolta in un paio di guerre. Fare la guerra era una faccenda costosissima, lo è anche oggi, ma al tempo lo era proporzionalmente di più, perché non esistevano sistemi fiscali raffinati come quelli attuali. Inoltre le guerre erano una faccenda da condottieri, personaggi che si facevano pagare uno sproposito (in alcuni casi diventano così ricchi da prendersi il governo di uno stato, come i Malatesta o gli Sforza).
Gli stati quindi si indebitano per poter combattere e i banchieri sono ben lieti di prestare loro i denari perché gli stati – in genere – sono solvibili o perché in cambio si fanno assegnare rendite ricchissime (le dogane, lo sfruttamento del sale, o quant’altro). Alla fine della guerra contro gli Scaligeri (1336-38) il Comune di Firenze si ritrova debitore per circa 450.000 fiorini d’oro e la successiva guerra di Lucca (1341-43) porto l’indebitamento a oltre 600.000 fiorini. Una cifrona. Tanto per avere un’idea, si pensi che un fiorino d’oro pesava 3,5 grammi, quindi significava che il Comune doveva oltre tre tonnellate e mezzo d’oro, ma il confronto è improprio perché il potere d’acquisto dell’oro varia enormemente col trascorrere del tempo. Comunque gli anni precedenti erano stati di euforia finanziaria e i banchieri avevano prestato più che volentieri al Comune.
Il 23 settembre 1340 re Edoardo III d’Inghilterra firma l’armistizio di Esplechin, con cui si sancisce il fallimento delle spedizioni contro la Francia e l’inizio di quella che sarà conosciuta come Guerra dei Cent’anni. È subito chiaro che il sovrano inglese non sarebbe stato in grado di ripagare i banchieri fiorentini che gli avevano sovvenzionato le campagne. Firenze, allora, modifica la propria linea politica, decidendo di allontanarsi dal papato per avvicinarsi all’imperatore Lodovico il Bavaro. Re Roberto di Napoli non ne è affatto contento: teme che il salto della quaglia fiorentino provochi il congelamento dei suoi depositi nelle banche toscane: lui guelfo è, e guelfo rimane. Quindi baroni e prelati napoletani si precipitano a Firenze per ritirare i depositi. La crisi di liquidità è sempre più grave. Basta? No. Tra la fine del 1344 e l’inizio del 1345 viene dichiarata le negoziabilità dei titoli di debito pubblico fino allora non trasferibili. I titoli immediatamente crollano, con il medesimo effetto di un crollo in borsa dei giorni nostri.
Il sistema bancario fiorentino, pur il più avanzato del suo tempo, non è in grado di sopportare tutti assieme la bancarotta inglese, i prelievi napoletani e il crollo dei titoli di debito pubblico. Nel 1345 i banchi dei Peruzzi e dei Bardi falliscono: il botto è da un milione e mezzo di fiorini (600.000 i Peruzzi, 900.000 i Bardi). Le conseguenze sono catastrofiche. Il fallimento delle banche più grandi si trascina le altre, saltano gli Antellesi, gli Acciaioli e vari altri. Gli archivi ci restituiscono una lista di 350 cittadini fiorentini falliti, ma sicuramente devono esser stati molti di più. Crolla anche il mercato immobiliare. Il cronista Giovanni Villani riferisce che è peggio di una guerra perduta: mai a Firenze c’è stata «maggiore ruina e sconfitta». Non c’è più liquidità, sempre Villani scrive che «non rimane quasi sostanza di pecunia ne’ nostri cittadini». Firenze è in ginocchio.
È sufficiente? Macché. Per motivi assolutamente indipendenti dai fallimenti bancari dal 1345 al 1347 cresce il corso dell’argento. Il sistema dei prezzi fiorentini è basato sull’argento (l’oro serviva agli scambi internazionali) e quindi il rincaro del metallo prezioso aggrava la deflazione. Giovanni Villani riferisce che «tutte le monete d’argento si fondieno e portavansi oltremare» dove il rapporto con l’oro era rimasto più stabile e quindi si potevano realizzare buoni guadagni sul cambio tra i due metalli. Fonti veneziane e fiorentine confermano che in pochi anni l’argento si era rivalutato sull’oro di oltre il 30 per cento. E siccome la moneta aurea non può essere toccata perché ne andrebbe del prestigio dello Stato, tutte le tensioni inflazionistiche si scaricano sulla moneta d’argento.
Basta così? Mica tanto. Nell’ottobre 1345 comincia a piovere e in pratica non smette più fino a primavera. Si susseguono le inondazioni che si portano via le semine primaverili. Il raccolto del 1346 è miserabile, qualcuno dice il peggiore del secolo. Normalmente quando il raccolto va male si acquistano granaglie all’estero. Ma a Firenze non sono tempi normali: non c’è denaro, non c’è metallo prezioso, non si possono finanziare importazioni. Il governo aggrava ulteriormente le imposizioni fiscali, ma c’è poco da fare, la carestia che segue al cattivo raccolto è devastante, una delle più violente che la città toscana abbia mai sperimentato.
Fallimenti, deflazione, crisi di liquidità, carestie. C’è altro?
Nel 1347 da una galea genovese proveniente da Caffa, nel Mar Nero, sbarca a Messina un topo che porta con sé un ospite indesiderato, il più indesiderato che si potesse immaginare: una pulce infettata dal batterio della peste bubbonica. La malattia, endemica in Asia, compare per la prima volta in Europa; la popolazione, del tutto priva di difese immunitarie, viene sterminata. Quella che passerà alla storia come la “morte nera” svuota le città da un terzo alla metà della loro popolazione. Firenze, già indebolita dalla carestia,giro di un mese, l’agosto del 1348, passa da 90.000 a meno di 45.000 abitanti. Potrebbe andare peggio?
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Inserito su www.storiainrete.com il 7 febbraio 2012