Dorothy Kilgallen potrebbe essere stata eliminata perché indagava sulla morte di Jfk. Ora il procuratore di Manhattan ha deciso di rivedere il fascicolo sulla sua fine
di Guido Olimpio, del 1 febbraio 2017
Dorothy Kilgallen era la «giornalista che sapeva troppo». È morta per questo, la notte dell’8 novembre 1965. Si è uccisa o l’hanno uccisa. Dipende dai punti di vista. L’Fbi ha certificato la tesi del suicidio, teoria mai accettata da tutti. A ragione. Ora il procuratore di Manhattan ha deciso di rivedere il fascicolo sulla sua fine. Una donna al centro del Grande Mistero: l’assassinio del presidente John Kennedy a Dallas.
Secondo il «New York Post» il magistrato ha trovato spunti interessanti in un libro scritto da Mark Shaw, dove sono presentati nuovi elementi sul decesso. L’ipotesi è che abbiano organizzato una manovra facendo credere che la donna avesse ingurgitato barbiturici e alcol. In realtà qualcuno avrebbe preparato la miscela letale costringendola poi a berla. A confermarlo tracce di polveri sospette rimaste nella stanza da letto, ma ignorate dagli investigatori. Così come — sempre secondo la nuova teoria — hanno imbrogliato le carte affidando l’autopsia al laboratorio di Brooklyn, facilmente manipolabile. Soluzione «pulita» messa in atto da chi temeva il lavoro di una reporter tenace.
Dorothy è figlia d’arte. Suo padre è un giornalista e lei lo imita conquistando il successo. Scrive di spettacolo, conosce personaggi e star, ma è soprattutto un mastino di cronaca nera. Segue processi celebri, a cominciare da quello contro Sam Sheppard, il famoso fuggitivo, la cui complessa storia giudiziaria diventerà una serie tv e un film. Lei è convinta che l’inchiesta sia piena di errori, prende posizione in difesa dell’accusato, smaschera il pregiudizio di chi indaga. Combattiva, guida un programma tv sulla «Cbs», è spesso alla radio, pubblica i suoi articoli su oltre cento quotidiani. Sta davanti alle telecamere ma dirà sempre che la sua passione sono i giornali. Probabilmente perché le concedono più tempo per indagare. Non ha paura di farsi nemici, compreso Frank Sinatra e il direttore dell’Fbi, Edgar Hoover, lo sbirro che tiene d’occhio l’America con ogni metodo, anche dal buco della serratura.
Armata di passione, di una pistola nella borsetta e buone fonti, Dorothy inizia una lunga indagine sull’omicidio Kennedy. Non crede affatto alla versione ufficiale, non pensa che il 22 novembre del 1963 Lee Oswald abbia fatto tutto da solo. Il suo lavoro irrita le autorità e in particolare gli agenti federali. Disturba il racconto propinato all’opinione pubblica, rafforza il «partito del dubbio» che sospetta un complotto ben più ampio. L’Fbi non gradisce quando la reporter riesce ad ottenere e pubblica in anticipo la confessione di Jack Ruby, proprietario di night club e figura torbida, che ammazza Oswald sotto gli occhi della polizia. Ma questo è il meno. Ciò che allarma tanti è la pista — peraltro condivisa da altri — che Kennedy sia stato eliminato su mandato di Carlos Marcello, boss della mafia a New Orleans.
Ed è nella città della Louisiana che la Kilgallen compie diversi viaggi alla ricerca di riscontri. Ed è sempre qui che dovrebbe recarsi per un incontro con una fonte importante. Solo che l’8 novembre 1965 Dorothy muore. La trovano seminuda, parzialmente truccata, nella sua casa di Manhattan. La infilano nel sacco nero e poi chiudono il file. Gli inquirenti non si guardano intorno. Insabbiano, è l’accusa. Shaw, nel suo libro, invita a guardare alla figura di un amante di Dorothy che in realtà la sorvegliava e teneva aggiornati i nemici. E poi sulle figure ambigue di quell’epoca. Intrighi da «American Tabloid», ma anche complicità che nessuno ha voluto scardinare. Ci riusciranno oggi?