Luglio 1944, nella cittadina del New Hampshire viene deciso il destino economico del mondo E il dollaro ne esce unico vincitore, scalzando la sterlina. Un saggio svela i segreti dell’incontro.
di Luca Gallesi dal Giornale del 29 agosto 2015
Alcuni storici, non necessariamente revisionisti o anticonformisti, ritengono che tra i vincitori della Seconda guerra mondiale non vada annoverato il Regno Unito, dato che la fine del conflitto segnò anche il tramonto di quell’Impero inglese che, come recita uno dei loro canti nazionali preferiti, aveva dominato gli oceani dal fatidico 1588, anno in cui la flotta di Elisabetta aveva dimostrato che l’Armada spagnola non era affatto Invincibile.
Vinta la guerra contro il mostro nazista, insomma, la non più perfida Albione aveva perso la pace, come gli Inglesi diedero segno di aver capito immediatamente, facendo perdere a Churchill le prime elezioni del dopoguerra. Il declino dell’Inghilterra e l’ascesa della nuova potenza mondiale, gli Stati Uniti d’America, vengono consacrati da un evento e una data precisi: gli accordi di Bretton Woods, siglati nel luglio 1944 dai rappresentanti di quarantaquattro Paesi nella cittadina del New Hampshire da cui presero il nome.
La guerra era ormai destinata a finire con la sconfitta dell’Asse, e i futuri padroni del mondo dovevano trovare un accordo per regolare gli scambi commerciali. La soluzione sarebbe passata attraverso la creazione di un forte organismo internazionale, che sarebbe diventato il Fondo Monetario Internazionale, a cui ogni Stato avrebbe effettuato cessioni di sovranità, accettando la piena convertibilità del dollaro in oro in vista di un ipotizzato, futuro bene comune. La storia di come nacque, e come nel 1971 andò a finire, questo nuovo ordine mondiale è raccontata da un saggio che si legge come un romanzo: La battaglia di Bretton Woods, di Benn Steil, pubblicato da Donzelli Editore a cura di Ada Becchi (pagg. 410, euro 38).
I lavori, che durarono dal 3 al 22 luglio, furono guidati dai rappresentanti di USA e Regno Unito, rispettivamente Harry Dexter White, vice del Ministro del Tesoro Henry Morgenthau, e uno dei più prestigiosi economisti inglesi, John Maynard Keynes. I due uomini non potevano essere più diversi: tanto rozzo, pragmatico e volgare il primo, quanto raffinato, altezzoso e colto il secondo, che, ovviamente, ebbe la peggio: il suo progetto di limitare il dominio di una valuta su tutte le altre cedette il passo al dominio pressoché incontrastato del dollaro statunitense, che avrebbe permesso, come dirà De Gaulle, «di diventare uno strumento di credito riservato a un solo Stato». Oltre all’avvincente ricostruzione di tutto quello che accadde prima, durante e dopo gli accordi di Bretton Woods, il lettore attento non mancherà di apprezzare molti riferimenti ad alcune pagine di storia dimenticate o rimosse, come, ad esempio, l’opposizione americana all’entrata in guerra, che era una opinione molto diffusa, condivisa tra gli altri dal padre di John Kennedy, che per protesta si dimise da ambasciatore a Londra, e dall’eroe dell’aria Charles Lindbergh, che chiese al suo Paese di «smettere di invocare la guerra».
Ci viene ricordata, inoltre, la cosiddetta Operazione Neve, progettata per costringere il Giappone a scendere in guerra contro l’America, e viene smascherata la fittissima ed efficiente rete di spie russe, che avevano praticamente in pugno Harry Dexter White, fervido ammiratore dell’economia pianificata sovietica. Ma le osservazioni più interessanti riguardano il cosiddetto piano Morgenthau, ossia i progetti per il futuro della Germania elaborati appunto dallo spietato Ministro del Tesoro, che avrebbe voluto sterminare il popolo tedesco e ridurre quel che sarebbe rimasto della Germania a un Paese totalmente deindustrializzato, con un’economia agricola di sussistenza, piano che fu poi bocciato.
Gli Stati Uniti sarebbero comunque usciti dalla guerra con una posizione di netta egemonia, che avrebbe continuato a mantenere anche dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, decretata da Nixon nel 1971, posizione, forse, solo ora messa in difficoltà dall’apparire sulla scena mondiale del gigante cinese, che, non va dimenticato, detiene gran parte del debito pubblico americano.