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Iwo Jima: la complicata vicenda della foto dei Marines sul monte Suribachi

Fu scattata nel 1945 e divenne famosissima, ma prima ci furono dubbi sulla sua autenticità, poi una ricerca decennale sui soldati ritratti nello scatto di Joe Rosenthal.

da Il Post del 23 febbraio 2025

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La mattina del 23 febbraio del 1945 un gruppo di soldati dell’esercito statunitense arrivò in cima al Suribachi, un vulcano spento sull’isola giapponese di Iwo Jima considerato un punto cruciale per il controllo della zona. Portavano con sé una bandiera degli Stati Uniti: l’obiettivo era compiere una ricognizione in vetta e piantare la bandiera statunitense per certificare la conquista del monte, negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale.

Ci riuscirono, e una foto che certifica quel momento fu scattata dal fotografo di Associated Press Joe Rosenthal. In breve la foto vinse il premio Pulitzer e diventò un simbolo: per decenni è stata riprodotta in molte forme e utilizzata molto spesso nella propaganda militare statunitense, ed è stata anche la fonte di ispirazione per un celebre memoriale ai marine che si trova ad Arlington, in Virginia. Ma la storia dietro la foto è molto più tortuosa di quanto si seppe all’inizio.

L’esercito statunitense era sbarcato a Iwo Jima qualche giorno prima, il 19 febbraio, durante la campagna nelle isole Marshall. Combatteva contro i giapponesi nella cosiddetta guerra del Pacifico, uno dei fronti della Seconda guerra mondiale, quello che si concluse di fatto con le due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. La conquista del monte Suribachi fu una delle prime vittorie nella battaglia per la conquista dell’isola, che avvenne dopo più di un mese e la morte di 6.800 militari statunitensi e quasi 20 mila giapponesi.

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Raggiunta la vetta del Suribachi un comandante ordinò a un gruppo di soldati di piantare la bandiera. Erano circa le 10:30. In quel momento Louis R. Lowery, sergente dell’esercito nonché fotografo della rivista Leatherneck, stava cambiando il rullino alla sua fotocamera e per questo non riuscì a scattare in tempo: perse l’istante esatto in cui veniva issata e cliccò il tasto dell’otturatore subito dopo.

La foto della prima bandiera, scattata dal sergente Lowery un attimo dopo essere stata piantata (AP Photo/U.S. Marine Corps/Louis R. Lowery)

Quella stessa mattina un altro fotografo, Joe Rosenthal, che lavorava per Associated Press, stava raggiungendo l’isola dopo aver passato la notte su una nave dell’esercito. Arrivato a Iwo Jima e saputo dell’avanzamento degli statunitensi decise di raggiungere la cima insieme ad altri due fotografi. A metà salita il gruppo incontrò quattro marine con il sergente Lowery, che li avvertì che il momento più solenne, quello della bandiera, era già passato. «Stavamo per tornare indietro, ma Lowery disse che c’era una bella vista sull’isola, quindi decidemmo di proseguire», ha raccontato Rosenthal.

Arrivati in cima scoprirono di essere più fortunati del previsto: il comandante aveva ordinato a un gruppo di militari di piantare una seconda bandiera, perché la prima era troppo piccola. Erano circa le 13 quando il secondo gruppo la prese in spalla e fece per piantarla. «Posai la mia Speed Graphic [un modello di fotocamera molto diffuso all’epoca tra i fotoreporter] e ammucchiai rapidamente alcune pietre e un sacco di sabbia per sollevarmi un po’», ha ricordato Rosenthal. «Poi ripresi la macchina fotografica e salii sulla pila». Distratto da un altro fotografo proprio in quell’istante, scattò senza guardare nel mirino, ma soprattutto senza sapere che sarebbe stata la foto più importante della sua carriera.

La foto della seconda bandiera, 23 febbraio 1945 (AP Photo/Joe Rosenthal, File)

Dopo quella fotografia Rosenthal restò ancora in cima. Fece tra le altre una foto dell’intero gruppo di soldati in posa sotto la bandiera, che non raggiunse i livelli di fama della prima ma divenne nota perché fu al centro di un equivoco che portò il fotografo a difendersi dalle accuse di aver inscenato il lavoro che gli valse il Pulitzer.

Qualche giorno dopo, infatti, quando la foto era già stata pubblicata e vista da moltissime persone, Rosenthal venne contattato dal giornalista Robert Sherrod per un’intervista. Sherrod gli chiese se la foto fosse stata organizzata, se insomma i soldati si fossero messi in posa apposta per il fotografo. Rosenthal gli disse «certo», pensando che si riferisse alla foto di gruppo dei soldati raccolti attorno alla bandiera: l’equivoco venne chiarito poco dopo, ma Rosenthal si trovò spesso negli anni a ritornare sulla questione.

La foto dei soldati raccolti attorno alla bandiera, da cui nacque il malinteso. Divenne nota come “gung ho”, un’espressione in cinese che indica entusiasmo (AP Photo/Joe Rosenthal)

Nel 1945, spinto dall’enorme impatto emotivo che la foto aveva generato sulla popolazione americana, il presidente Roosevelt ordinò che fossero identificati i nomi dei sei soldati presenti nella foto, tutti di spalle o coperti dall’elmetto. Serviva per una raccolta fondi per il finanziamento della guerra nel Pacifico, con cui il governo degli Stati Uniti avrebbe raccolto 26 miliardi di dollari. Non fu per niente facile.

Rosenthal quel 23 febbraio non aveva raccolto i nomi dei soldati presenti, e quindi non li aveva inclusi nella descrizione della foto che inviò alla redazione. La ricerca partì dal primo soldato di cui si pensava di conoscere l’identità, Rene Gagnon, di cui si vede soltanto un pezzo del caschetto dietro l’asta della bandiera, al centro della foto. Fu lui a fare i nomi degli altri: Franklin Sousley, Michael Strank e Henry “Hank” Hansen, tutti morti a Iwo Jima nei giorni seguenti; John Bradley, rimasto ferito poco dopo, e Ira Hayes. Poco dopo venne fuori che Gagnon aveva sbagliato il nome di uno dei soldati morti: nella foto non era rappresentato Hansen ma Harlon Block, anche lui morto in battaglia.

Quasi settant’anni dopo, nel 2014, la storia sembrava chiusa ma due storici amatoriali, Stephen Foley ed Eric Krelle, insieme a un giornalista dell’Omaha World-Herald, Matthew Hansen, misero in dubbio un altro dei nomi fatti da Gagnon. Era quello di John H. Bradley, il terzo uomo da sinistra.

Comparando la foto di Rosenthal con altre scattate quel giorno, Foley, che era un appassionato di storia della Seconda guerra mondiale, si rese conto di alcune differenze che facevano escludere che il terzo soldato da sinistra potesse essere Bradley. La più evidente riguardava l’equipaggiamento: la persona nella foto aveva una grossa cintura per le munizioni e una cesoia per tagliare il filo spinato, mentre Bradley era un portaferiti e non aveva con sé nessuno di quegli strumenti.

A quel punto scrisse a Krelle, che gestiva un sito dedicato ai marine e aveva raccolto negli anni moltissimo materiale. Studiandolo ipotizzarono che la persona nella foto fosse Harold H. Schultz, sopravvissuto a Iwo Jima e fino ad allora mai associato alla foto di Rosenthal. A quel punto contattarono Hansen, il giornalista, che scrisse a diversi storici incontrando molto scetticismo ma ottenendo da uno di loro una risposta importante: si era convinto che avesse ragione, ma non voleva essere citato.

Prima di pubblicare il suo articolo Hansen si mise in contatto anche con il figlio di Bradley, che anni prima aveva scritto un libro sulla storia del padre, Flags of Our Fathers, da cui era stato ispirato il noto film di Clint Eastwood. Bradley inizialmente si dimostrò scettico rispetto alla possibilità che quello nella foto non fosse suo padre, ma nel maggio del 2016 contattò il New York Times per dire che si era convinto anche lui della teoria di Hansen, Krelle e Foley. Poco dopo la pubblicazione di quell’articolo, il Corpo dei marine rese noto di aver avviato una ricerca interna per appurare una volta per tutte l’identità dei protagonisti della foto.

Il risultato venne pubblicato nell’agosto del 2016: venne fuori che Bradley aveva sì piantato la bandiera sul monte Suribachi, ma la prima, quella più piccola. Nel gruppo che tirò su la seconda, invece, come giustamente scoperto da Foley, Krelle e Hansen, c’era Harold H. Schultz.

Anche questa volta, però, la storia non era del tutto finita: tre anni dopo, nell’ottobre del 2019, il Corpo dei marine corresse l’identità di un altro degli uomini che si pensava fossero nella foto. Era quella di Rene Gagnon, il soldato che fece il nome di tutti gli altri e che nel 1945 partecipò alla tournée per la raccolta fondi per la guerra nel Pacifico. L’angolino del caschetto che si scorge dietro l’asta non era il suo, sebbene anche lui avesse partecipato agli sforzi per tirare su la bandiera, ma quello di Harold P. Keller.

Ancora una volta la scoperta era dovuta a un gruppo di storici amatoriali: lo stesso Foley, Dustin Spence e Brent Westemeyer. Le loro ricerche sono state poi confermate dal Corpo dei marine con l’aiuto dell’FBI.

Quando i marine pubblicarono l’ultima comunicazione con cui correggevano l’identità dei soldati di Suribachi, Keller era morto da molto tempo. Intervistata da NBC, sua figlia Kay Maurer raccontò che il padre non aveva mai detto nulla sul suo ruolo nei fatti del 23 febbraio 1945, ma disse che aveva sempre tenuto in casa una riproduzione incorniciata della famosa fotografia di Rosenthal. Maurer raccontò che negli anni, quando suo padre si trovava a parlare degli eventi di quel giorno, diceva sempre che era stato «il gruppo», a tirar su la bandiera.

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