«Race», in uscita a febbraio, fedele alla tesi che Jesse raccontò (inascoltato). Smentita dalla figlia Marlene la bugia del Führer che non volle stringergli la mano, fu invece evitato dall’allora presidente Usa Franklin Delano Roosevelt.
di Gaia Piccardi dal Corriere della Sera del 2 gennaio 2016
L’atletica con il mal di testa – il neopresidente Seb Coe sempre più accerchiato, la Russia fuori sine die dalle competizioni internazionali, lo scandalo doping che sta per abbattersi su Kenya e Etiopia, dominatrici delle discipline di resistenza – si aggrappa alla leggenda di Jesse Owens, trentacinque anni dopo la sua morte più viva che mai. È Hollywood, con la collaborazione della figlia Marlene Owens Rankin, a essersi incaricata di un’agiografia, «Race», in uscita il 19 febbraio negli Stati Uniti, che scriverà l’ultima verità storica sulla vita di quello che è considerato il più grande atleta della storia.
Fulcro dell’azione l’Olimpiade di Berlino 1936, dove Owens si mise al collo quattro medaglie d’oro in sette giorni: 100 metri (3 agosto), salto in lungo (4 agosto), 200 metri (5 agosto) e staffetta 4×100 (9 agosto). Il poker del ragazzo prodigio dell’Alabama (poi trasferitosi a Cleveland, Ohio) nella Germania nazista, a Berlino sotto gli occhi del Fuhrer, ha permesso alla stampa mondiale di creare il caso della discriminazione razziale di Owens, detestato dal ministro della propaganda del terzo Reich Joseph Goebbels («L’umanità bianca si dovrebbe vergognare» scrisse nel suo diario) e snobbato da Adolf Hitler, che si sarebbe rifiutato di stringergli la mano. «In realtà, mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler» ha certificato Marlene agli sceneggiatori del film, Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, che hanno corretto nel copione il più celebre e antico fraintendimento della storia dello sport. «In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca». Per nulla supportato da Avery Brundage, filonazista, all’epoca presidente del Comitato olimpico statunitense (poi numero uno del Cio dal ‘52 al ‘72), Owens si vide cancellare – e mai più riprogrammare – un appuntamento da Roosevelt, impegnato nelle elezioni presidenziali del ‘36 e preoccupato della reazione che avrebbero avuto gli Stati del Sud. Roosevelt verrà rieletto, Owens per reazione si iscriverà tra le file dei repubblicani, facendo campagna elettorale per il candidato Alf Landon.
Ci sono bugie cui siamo troppo affezionati per rinunciarvi. «“Race” è un film che metterà a dura prova l’idea che gli Usa si sono fatti di Jesse Owens» ha scritto The Times. Raccontato sul grande schermo dalla produzione franco-tedesco-canadese, firmato dalla regia dell’australiano Stephen Hopkins, il film è fedele alla narrazione che Jesse Owens ha portato avanti fino alla fine, spesso inascoltato. Di fronte alla vittoria nel lungo contro il migliore atleta tedesco del tempo, Luz Long, si narra che il Führer indispettito se ne sia andato dallo stadio senza degnare di uno sguardo il trionfatore. Falso. «Dopo essere sceso dal podio, passai davanti alla tribuna d’onore per tornare negli spogliatoi. Il Cancelliere mi fissò. Si alzò e mi salutò con un cenno della mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Giornalisti e scrittori dimostrarono cattivo gusto tramandando un’ostilità che, di fatto, non c’era mai stata» scrive nella sua autobiografia «The Jesse Owens Story» (1970). Qualche anno fa l’anziano giornalista tedesco Siegfried Mischner, presente ai Giochi del ’36, diede nuova linfa alla verità raccontando di aver visto con i suoi occhi Hitler stringere la mano a Owens dietro le quinte dell’Olympiastadion: «Owens aveva portato un fotografo e, dopo l’Olimpiade, chiese alla stampa di correggere un errore che si sarebbe trascinato fino ai giorni nostri. Nessuno gli diede retta».
In «Race», il giovane talento canadese Stephan James («Selma, la strada per la libertà») è Jesse Owens. Il cast è solido. Jason Sudeikis è l’ossessivo coach Larry Snyder, Jeremy Irons è l’infido Avery Brundage, William Hurt è Jeremiah Mahoney, potente membro dell’Amateur Athletic Union, a cui per un pelo non riuscì di boicottare i Giochi di Berlino, e Carice van Houten è Leni Riefenstahl. «Era importante che i fatti non fossero riscritti per l’ennesima volta» ha detto Marlene, parlando a nome della Jesse Owens Foundation. Ma spesso un’affascinante menzogna è preferibile alla cruda realtà.