Esistono libri, a volte a dispetto persino del valore letterario o storiografico, destinati a diventare degli spartiacque nella storia di un Paese. Crediamo che il saggio di Sergio Luzzatto Partigia, che esce oggi da Mondadori, sia uno di questi. Fine di un’epoca? Di una storiografia ideologica? Riappacificazione fra «revisionismo» e «vulgata partigiana» sulla guerra civile? Un cerchio che si chiude? Forse sì.
di Luigi Mascheroni da Il Giornale del 18 aprile 2013
Scritto da Sergio Luzzatto, storico dell’Università di Torino, autore Einaudi, firma e volto popolare sull’asse La7-Sole24ore e intellettuale di riferimento della Torino «azionista», Partigia (il titolo è il termine gergale con cui i piemontesi chiamavano i partigiani) racconta una storia molto particolare della Resistenza. Anzi è una storia molto particolare della Resistenza. Una lettura sorprendente della nostra guerra civile, che parte da una documentata e appassionata indagine su un «segreto brutto», un episodio terribile che ebbe fra i protagonisti lo scrittore Primo Levi – un figura mito dell’antifascismo – quando partecipò alle azioni partigiane, per poche settimane, nella Valle d’Aosta del 1943. E il segreto, che lo stesso Levi, morto suicida nel 1987, non rivelò mai apertamente, accennò soltanto indirettamente, è questo: il 9 dicembre 1943, al Col de Joux, sopra Saint-Vincent, due giovanissimi partigiani, Fulvio Oppezzo, di 18 anni, e Luciano Zabaldano, di 17, vengono fatti uscire dalla baita di Frumy, dov’è rifugiata la banda di Levi, e uccisi dai loro compagni partigiani con il «metodo sovietico»: mitragliati alle spalle, a freddo, senza parole, senza processo. La colpa dei due ragazzi? Avere rubato cibo o altre cose ai valligiani. Levi che non sparò, ma che insieme ai capi decise l’esecuzione sommaria – sarà arrestato pochi giorni dopo in un rastrellamento dei nazifascisti, imbeccati da una spia, quindi portato a Fossoli e da lì ad Auschwitz verso una storia che conosciamo bene.
Su quell’altra storia, invece, cade prima il silenzio (Levi accenna cripticamente all’episodio nel Sistema periodico, del ’75: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi»). Poi seguì l’ipocrisia (i due ragazzi nel dopoguerra vengono fatti passare per vittime dei fascisti, e diventano eroi partigiani). Quindi, a 70 anni di distanza dai fatti, prima con gli studi di storici locali e giornalisti, e ora con il saggio dell’accademico Luzzatto, arriva la giustizia della Storia, che ci restituisce la verità su quel massacro, e un’altra verità sulla Resistenza.
Infine, ieri, due articoli di Paolo Mieli e di Gad Lerner – a chiusura del cerchio – saldano l’ultimo anello di questa lunga catena di sangue, silenzi, tabù e polemiche. Mieli sul Corriere della sera sottolinea come Luzzatto, a lungo critico feroce verso la rilettura della «vulgata resistenziale» di Giampaolo Pansa, oggi mostri una sorprendente (e necessaria, e speriamo definitiva) riconciliazione con un modo diverso anche se scomodo di leggere la guerra civile. Mentre su Repubblica Lerner, che ne scrive come ammette lui stesso «con disagio» (così come per un comprensibile imbarazzo Einaudi ha preferito che il libro fosse pubblicato dai cugini della Mondadori), è costretto obtorto collo a confrontarsi, e con lui tutta la vecchia sinistra azionista, democratica e antifascista, con questa «discutibile revisione iconografica e sentimentale» – dolorosa ma indispensabile – della Resistenza, e dei suoi eroi. Come obbligano a fare tutti i libri spartiacque.
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