Un fiume di voci che riemerge come un fenomeno carsico dalle macerie, materiali e spirituali, della storia russa recente. È questo il libro di Svetlana Aleksievic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani). Dove il titolo originale, Vremija Second Hand, metà in russo e metà in inglese, dà subito l’idea dello scarto mentale e culturale tra il «prima» e il «dopo» rappresentato dalla fine dell’Urss.
di Luigi Ippolito dal Corriere della Sera del 27 settembre 2014
Un libro che scorre come un romanzo, ma che in realtà è un trattato di antropologia culturale, il cui oggetto è una specie umana tutta particolare apparsa e (forse) dissoltasi nel corso del XX secolo: l’homo sovieticus, ossia il prodotto di settant’anni di laboratorio marxista-leninista. Una specie, come scrive l’autrice, inconfondibile, diversa da tutte le altre, con un suo vocabolario, una sua idea del bene e del male, i suoi eroi e i suoi martiri. L’autrice stessa fa parte di questa umanità: nata in Ucraina da genitori bielorussi e ucraini, vissuta in Bielorussia, cronista delle tragedie del suo Paese, dalla guerra afghana al disastro di Cernobyl, fino all’opposizione al regime di Lukashenko e all’esilio in Europa (terminato tre anni fa col rientro a Minsk). La Aleksievic registra le tracce della civiltà sovietica, ma non pone domande sul socialismo, bensì «sull’amore, la gelosia l’infanzia, la vecchiaia. Sulla musica, i balli, le pettinature… Sui mille e mille dettagli di una vita che non c’è più». E attraverso una miriade di testimonianze, registrate in presa diretta, l’autrice racconta come questo homo sovieticus abbia reagito di fronte alla libertà inaspettata di cui si è trovato a godere, o a poter approfittare. Cita Dostoevskij, il Grande Inquisitore, il peso insostenibile della scelta: «Ci sembrava che la scelta fosse stata fatta, che il comunismo avesse definitivamente perso. E invece era soltanto l’inizio…». Chi ha avuto la fortuna di assistere da vicino a quegli eventi, al tumulto della Russia negli anni Novanta, dalla caduta di Gorbaciov all’erratico regno di Eltsin, sa che si è trattato di un’epoca irripetibile.
La fine della censura, la liberazione dalle pastoie burocratiche, l’arricchimento vertiginoso, la sensazione che il futuro stesse dietro l’angolo e che tutto fosse a portata di mano. Un’ubriacatura, un disorientamento che scorrono nelle pagine della Aleksievic attraverso mille ricordi e dettagli personali, declinati attraverso interminabili conversazioni in cucina attorno a una tazza di tè. Ma l’autrice fa in tempo anche a registrare il contro-movimento, la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella società russa negli ultimi anni: «Rinascono idee di vecchio stampo: quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa… E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia». Ecco perché il libro della Aleksievic è importante per capire i giorni presenti. Perché ci mostra come, attraverso il marasma degli anni Novanta, l’homo sovieticus sia giunto fino a noi. E come si sia installato al vertice della piramide del potere. Perché cosa altro è Putin, se non l’homo sovieticus riplasmato attraverso la distruzione dei valori del postcomunismo? L’autrice scrive di aver passato tutta la vita sulle barricate. E alla fine intravede una nuova battaglia. In quelle decine di migliaia di persone che scendono in strada con i nastri bianchi sulle giacche. «Simbolo di rinascita. Di luce. E io sono con loro». Ma oggi sappiamo che anche la stagione della protesta degli ultimi due inverni si è rivelata effimera. E che la mobilitazione generale per la guerra in Ucraina ha ricompattato il consenso neo-sovietico. C’è da chiedersi in ultimo quanto ci sia di nostalgico e quanto di propriamente russo in questo esito. «L’immobile mongolo», aveva scritto Marx. «Sono passati cent’anni — annota la Aleksievic — e di nuovo il futuro non è al suo posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano».
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