Il rapporto tra cibo e soldati è sempre stato, nella storia, di fondamentale importanza. Vittorie e sconfitte, forme di propaganda e sviluppo tecnologico, persino gli ammutinamenti e le rappresaglie ruotarono spesso intorno al “rancio” – parola che, nonostante la sgradevole assonanza con “rancido”, deriva dallo spagnolo “rancharse” – mettersi in fila, tra soldati.
di Andrea Cionci da del 24 dicembre 2016
In un recente convegno dedicato al tema, il Brigadier Generale Stefano Rega, fino a pochi giorni fa Direttore di Amministrazione dell’Esercito, ha spiegato: “Fin dalla preistoria l’alimentazione militare è stata fondamentale per il successo delle operazioni belliche. Il legame tra cibo e guerra è strettissimo dato che, probabilmente, fu proprio il controllo dei terreni di caccia la causa dei primi conflitti fra le tribù di primitivi. Ancora, le prime forme di gerarchia militare le dobbiamo proprio all’attività venatoria, per la quale è sempre necessario scegliere un capo-caccia”.
Dell’Impero romano si dice che fu creato “più con il farro che con il ferro”. In effetti questo cereale, oggi largamente riscoperto, fu il «carburante» energetico grazie al quale i Romani poterono conquistare il mondo. I legionari partivano per la guerra con un pugno di questo cereale nella bisaccia, masticandone i chicchi durante la marcia. Al momento di allestire la cena da campo, li macinavano grossolanamente per bollirli in acqua e latte. Il risultato era una polentina chiamata «puls». Non avevano una dieta molto variata; del resto, l’austerità era considerata parte integrante della vita del buon legionario, e tutta la storiografia latina non fa che ribadire questo concetto.
Una tradizione italica che, a quanto pare, perdurò per secoli, fino all’Italia postunitaria, “La tradizione militare piemontese – conferma il colonnello Cristiano De Chigi, capo Ufficio storico dell’Esercito – propugnava un addestramento fondato sull’abitudine del soldato ad una vita estremamente scomoda. In questo caso, un’alimentazione abbondante era giudicata inadatta a formare il carattere del combattente. La principale linea di condotta era il risparmio: gli alimenti base rimanevano il pane, il riso, i legumi, una o due volte a settimana la carne. Solo in seguito si diffuse la pasta. Il Paese nasceva povero, indebitato e bisognava economizzare”.
Occorre ricordare che, tuttavia, l’alimentazione fornita dal Regio Esercito in quei primi anni di Regno, per quanto non abbondante, era quasi sempre migliore rispetto a quella del contadino italiano medio.
Sviluppo della logistica nella Grande Guerra
Pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, la fame fu la vera protagonista della Grande Guerra.
Il militare italiano se la passava meno bene, dal punto di vista alimentare, rispetto a quello inglese o francese, ma sicuramente meglio rispetto a quello austro-tedesco. Le stime rivelano che oltre un milione di persone morirono in Germania a causa degli effetti del blocco navale britannico. Anche il blocco sottomarino tedesco alla Gran Bretagna era orientato ad ottenere risultati identici, ma la situazione fu salvata dall’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto.
“La I Guerra Mondiale – sottolinea il Generale Rega – costituì per l’Esercito Italiano un ambizioso banco di prova che consentì di gettare le basi per una moderna logistica dei viveri. Importanti furono le innovazioni tecnologiche (come i primi forni rotabili) e si accentuò la mobilità delle cucine. Il consumo su larga scala della carne congelata impose la realizzazione di strutture logistiche (avveniristiche per l’epoca) per garantire la cosiddetta catena del freddo. Princìpi e tecnologie che, mutatis mutandis, mantengono ancora oggi una sostanziale validità”.
Come riporta lo storico Angelo Nataloni, nel ’15-’18 il rancio era trasportato a dorso di mulo dalle retrovie fino alle trincee con le “casse di cottura” sorta di pentole a pressione ante litteram, che contenevano delle marmitte coibentate ognuna del peso di kg 55. Erano in grado di conservare il calore per un giorno intero e la cottura del cibo avveniva in gran parte durante il trasporto. Per quanto riguarda lo scatolame, furono distribuite al fronte circa 230 milioni di lattine.
Nelle zone montane di guerra si trovano ancor oggi scatolette di burro, tonno, alici, funghi, mortadella, che all’origine erano particolarmente belle e colorate tanto da essere contese, oggi, da collezionisti specializzati. La vernice spesso riportava immagini di eroi risorgimentali, di passate campagne belliche, oppure motti come “Avanti Savoia!” o altre incitazioni. Il cibo diventava così anche un mezzo per motivare e sostenere il morale dei soldati in modo capillare.
Il rancio e gli ammutinamenti nella storia
Il rapporto tra militari e cibo fu addirittura identificativo tra i Giannizzeri, il corpo militare d’elite dell’Impero Ottomano. Il pasto in comune era un vero e proprio rito quotidiano: i soldati portavano sul turbante un cucchiaio come distintivo, avevano come simbolo del loro reparto il pentolone in cui si cuoceva il rancio, e tutti i loro gradi erano ispirati alla gerarchia delle cucine. Se il calderone del rancio veniva rovesciato nella cucina questo era un inequivocabile segnale di ammutinamento.
Spesso, nella storia, le ribellioni militari ebbero forti legami con l’alimentazione, ciò non solo perché un cattivo rancio, comprensibilmente, irritava i soldati, ma anche perché nella refezione comunitaria si poteva parlare, esprimere lamentele e organizzarsi senza essere troppo sorvegliati. (Basti ricordare la congiura contro Hitler, del 2 luglio ’44, pianificata nelle mense ufficiali della Wehrmacht).
Napoleone temeva molto l’insoddisfazione alimentare dei propri uomini. Ripeteva spesso che “un esercito marcia sul proprio stomaco”, e si dedicò a migliorare il sistema degli approvvigionamenti. Sapeva che i soldati denutriti combattevano male e tendevano a derubare la popolazione civile che, molto spesso, si vendicava. In quei casi, l’esercito regolare doveva rispondere con pesanti rappresaglie, dando il via a una perniciosa spirale di violenza.
Fu proprio intorno al cibo che si svolse la spietata punizione del Great Mutiny: nel 1857, le truppe coloniali indiane si ammutinarono contro il dominio inglese quando scoprirono che le cartucce dei loro fucili erano lubrificate con grasso di vacca – sacra agli indù – o di maiale, impuro per i musulmani. Una volta domata la rivolta, i britannici vollero riaffermare il loro potere costringendo i ribelli imprigionati a nutrirsi con carne bovina e suina prima di essere mandati alla forca, o legati alla canna del cannone.
Ancora, la costrizione a mangiare qualcosa di sgradito fu all’origine dell’ammutinamento della corazzata Potëmkin (1905) che mise a rischio la monarchia zarista dodici anni prima della Rivoluzione d’Ottobre. I marinai insorsero proprio in seguito al tentativo da parte del primo ufficiale Ippolit Giliarovskij di obbligare l’equipaggio a mangiare carne infestata dai vermi.
L’esperienza americana e la Razione “K”
La logistica dei viveri decise in buona parte le sorti della guerra di Secessione, che insanguinò l’America dal 1861 al 1865. I generali nordisti Ulysses Grant e William Sherman affrontarono la questione dei rifornimenti con due approcci diversi, ma efficaci.
Grant, convinto tecnocrate, organizzò un efficiente sistema di trasporto ferroviario per il nuovo cibo in scatola. Sherman scelse, invece, un vecchio espediente: il saccheggio sistematico del territorio conquistato, tanto che, ridotto alla fame e assediato, il Sud capitolò.
L’uso strategico del cibo da parte degli USA tornò prepotentemente alla ribalta durante il secondo conflitto mondiale tanto che l’abbondanza alimentare è rimasta fino ad oggi tratto caratteristico del loro stile militare.
Fu il nutrizionista americano Ancel Keys a creare la famosa Razione K (dall’iniziale del suo cognome), composta di gallette, carne di maiale essiccata, cioccolata, frutta secca, limone liofilizzato e pillole per sterilizzare l’acqua. Là dove l’intendenza non poteva arrivare tempestivamente, il soldato americano ricorreva a questa versione moderna e migliorata delle vecchie “razioni a secco”. Ancor oggi nell’Esercito Usa è dedicata enorme cura all’alimentazione del soldato evitando che debba ricorrere alle risorse locali, tranne che in casi eccezionali.
Le derrate alimentari furono utilizzate dagli statunitensi anche come efficace strumento di propaganda per accattivarsi le simpatie dei civili nei paesi conquistati: basti ricordare il pane bianco, il caffè e la cioccolata che i soldati americani distribuivano, dal ’43 in poi, alla popolazione italiana. La fame ha buona memoria, ecco perché, di quelle erogazioni di cibo, sono rimaste tracce, ancor oggi, nella memoria collettiva.