Mimi Alford è l’autrice del libro che sta facendo discutere l’America, Ho amato Jfk (Rizzoli), in cui racconta della sua relazione con l’allora presidente John Fitzgerald Kennedy. Era il 1962, lei aveva 19 anni, lui 45. Ora, per la prima volta, la Alford parla di quell’amore.
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di Olivier O’Mahony su “Chi”
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Domanda. Signora, com’è diventata l’amante di Jfk?
Risposta. «Mi ha fatta salire nei suoi appartamenti privati quattro giorni dopo che avevo cominciato a lavorare nell’ufficio stampa della Casa Bianca. Pensavo si trattasse di un brindisi di benvenuto».
D. Era sola con lui?
R. «No, c’era il suo consigliere, Dave Powers, che mi aveva invitata al brindisi, e due segretarie che, pare, erano amanti di Jfk. Questo, però, l’ho saputo in seguito. Quando il presidente mi ha proposto di seguirlo, ci hanno lasciati soli. Siamo passati da una stanza all’altra, poi, in fondo all’ingresso, ha aperto una porta: “Ecco la camera della signora Kennedy”, mi ha detto».
D. Era imbarazzata?
R. «Mi è sembrato strano, ma sapevo che Jackie aveva cominciato a ristrutturare la Casa Bianca. Forse voleva mostrarmela perché era orgoglioso di lei. La camera era splendida».
D. Lui come si è avvicinato?
R. «Mi ha mostrato una foto di Caroline, il busto di un bambino che somigliava a John-John. Ero commossa. Poi, con grande dolcezza, ho sentito il suo respiro sulla nuca. Mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: «Qui staremo tranquilli». Mi ha spinta sul letto e io non ho opposto resistenza, l’ho persino aiutato a slacciarmi l’abito. È avvenuto in modo naturale».
D. Per lei era la prima volta?
R. «Sì. E Jfk se ne è reso conto. È diventato molto premuroso. “Tutto bene? Tutto bene?”, mi ripeteva. Io ero appoggiata sui gomiti e lo lasciavo fare. Poi mi ha sorriso e mi ha mostrato il bagno, dove mi sono rivestita. Quando ne sono uscita, era scomparso. “Sono qui”, ha gridato dal salone, dove avevamo preso l’aperitivo. “Che ne diresti di mangiare un boccone?”. Tutto quello che desideravo era tornare a casa mia. Lui se n’è reso conto. “Nessun problema, mando a chiamare una macchina”. Mi ha accompagnata fino all’ascensore. “Buonanotte Mimi, spero che andrà tutto bene”, mi ha detto, chiudendo la porta».
D. Come si è sentita dopo?
R. «Non sapevo che cosa pensare. La mia era una famiglia conservatrice, avrei dovuto essere sotto choc, ma non è stato così. Avevo avuto la sensazione che, tra me e lui, si fosse stabilito un legame particolare, quando si era reso conto che ero vergine».
D. Quando l’ha rivisto?
R. «La settimana successiva. Mi ha fatta salire di nuovo nella sua residenza privata. Jackie era in vacanza in Virginia. Avrei potuto dire di no, ma ho detto di sì, perché ne avevo voglia. Abbiamo cenato e mi ha portata in un’altra camera, la sua. C’erano un letto a baldacchino e due divani di fronte al camino, libri e giornali sparsi un po’ ovunque. “Vuoi fare un bagno?”, mi ha chiesto. “Puoi chiudere la porta, ti aspetto”. Così è cominciata la nostra relazione: ho continuato a vederlo una o due volte la settimana per tutta l’estate del 1962».
D. Lui aveva 45 anni, lei 19. Lui era il presidente, lei una studentessa. Come riuscivate a superare questo divario?
R. «Kennedy s’interessava a me: mi faceva domande sulla mia vita, i miei gusti, i miei amici, sugli argomenti di conversazione che preferivo. Non l’ho mai chiamato “signor presidente”».
D. Che tipo di amante era?
R. «Lui era sensuale, ma non mi ha mai baciata. La sera passavamo molto tempo nella vasca da bagno a giocare con due papere di plastica. Poi una cena leggera. Spesso c’erano panini con l’arrosto e cocktail di gamberetti. Un giorno mi ha insegnato a fare le uova strapazzate come piacevano a lui. Avevamo un intero piano per noi, ma passavamo il tempo in camera, in bagno e in cucina, ascoltando Frank Sinatra o Tony Bennett. A volte metteva una canzone che amavamo entrambi, I Believe in You di Robert Morse».
D. Le è mai capitato di dormire alla Casa Bianca?
R. «Sì, molte volte. Indossavo uno dei suoi pigiami».
D. Il suo stage alla Casa Bianca è finito nel settembre 1962 e lei è rientrata in facoltà.
R. «Aveva previsto tutto. “Dammi il numero del tuo dormitorio e ti chiamerò”, mi ha detto. Meno di una settimana dopo l’inizio dei corsi, una compagna ha bussato alla mia stanza: “C’è Michael Carter per te”. Era lo pseudonimo che aveva scelto. Telefonava spesso. Nessuno ha mai riconosciuto la sua voce. Poi prendevamo appuntamento. Era Dave Powers, il suo consigliere, a occuparsi di tutto. Mi mandava un’auto, un biglietto aereo e atterravo all’aeroporto di Washington. Lì mi aspettava un autista con il cartello Michael Carter».
D. Riusciva a vederlo spesso?
R. «Sì. Nell’ottobre 1962 mi sono ritrovata alla Casa Bianca nel pieno della crisi di Cuba. Non avevo mai visto il presidente così teso: ha passato la notte al telefono. L’ho sentito dire: “Preferisco vedere i miei figli comunisti che morti”».
D. Correvano voci sul vostro legame?
R. «Pochissimi lo sapevano. L’unica volta che l’ho visto preoccuparsi è stato quando gli ho detto di aver incontrato il vicepresidente Lyndon Johnson. “Non avvicinarlo”, mi ha ordinato. Non si fidava di lui».
D. Le piaceva la clandestinità?
R. «Sì. Nell’inverno 1962 Kennedy mi ha chiesto di accompagnarlo nei viaggi ufficiali. Mi ritrovavo in splendide camere d’albergo e la cosa mi piaceva moltissimo. A eccezione di una volta a Palm Springs, dove è andata malissimo».
D. Che cosa è successo?
R. «C’era una grande festa dal suo amico Bing Crosby. Tutta Hollywood era lì nel suo ranch. Kennedy mi ha fatto prendere dei poppers, sostanze stupefacenti. Sono scappata».
D. Come mai quella sera si è comportato così?
R. «Kennedy, ogni tanto, aveva bisogno di dimostrare che mi teneva in pugno. Qualche mese prima, nell’estate del 1962, c’era stata una scena squallida. Quel giorno eravamo nella piscina della Casa Bianca con Dave Powers, che era seduto sul bordo con i piedi in acqua e i pantaloni rimboccati. «Dave ha l’aria tesa: non potresti fare qualcosa per lui?», mi ha sussurrato il presidente. Ho capito che mi proponeva di soddisfare sessualmente il suo consigliere e io l’ho fatto. È stato umiliante e lo è stato anche per Dave. Jfk non si è perso neppure un secondo della scena. Alla fine ero sconvolta e mi sono rifugiata nello spogliatoio. Ho sentito Dave rimproverarlo, poi Kennedy è venuto a scusarsi con noi».
D. Ma lei è tornata da lui.
R. «Sì, nell’estate del 1963, sempre nell’ufficio stampa della Casa Bianca per un altro stage. In quel periodo ho passato molte meno notti con lui, perché Jackie era incinta. Il 7 agosto ha dato alla luce un bambino che è morto il giorno dopo per problemi respiratori. Jfk era sconvolto».
D. Quando lo ha visto l’ultima volta?
R. «A New York, all’hotel Carlyle, dove aveva delle riunioni. Era il 15 novembre 1963, una settimana prima della sua morte. In quel momento la nostra relazione non era più come prima. Forse a causa della morte del figlio, ma anche perché avevo conosciuto Tony, che stavo per sposare. Kennedy mi ha dato 300 dollari, una grossa somma per allora, per potermi prendere un bell’abito: era un regalo d’addio. “Peccato che tu non venga con me a Dallas”, mi ha detto andandosene, e mi ha stretta tra le braccia. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta».
D. Perché ha rivelato questo segreto dopo 50 anni?
R. «Perché non era più un segreto dal 2003, quando dei giornalisti di New York mi avevano ritrovata, ma io ho continuato a tacere. Ci sono voluti più di cinquant’anni per rendermi conto che non era un disonore essere stata l’amante di Kennedy a 19 anni».
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Inserito su www.storiainrete.com il 27 febbraio 2012