Un genio dell’economia doppiogiochista (Piero Sraffa), amico di Wittgenstein e agente sotto copertura di Stalin; perizie grafologiche; spie del Comintern, un «excursus freudiano» e persino un’apparizione fugace della Lettera rubata di E. A. Poe: tutto questo per alcuni fogli vergati a mano, quasi strappati dalle mani di un morto per essere trasportati in fretta forse in un caveau della Banca Commerciale, forse in un’ambasciata sovietica, ma in seguito sicuramente a Parigi, da Togliatti, e poi a Mosca, consegnati alla moglie del defunto con quella che probabilmente fu solo una patetica messinscena. Il mistery del momento, L’enigma del quaderno – La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pagg. 161, 18 euro), l’ha scritto un professore di filosofia del linguaggio dell’Università di Palermo, Franco Lo Piparo. Solo che non si tratta di fiction: il quaderno in questione sarebbe infatti il trentesimo quaderno del fondatore del Pci. Togliatti lo avrebbe fatto sparire perché conteneva affermazioni imbarazzanti per lui e per il partito.
di Fabrizio Ottaviani – dal Giornale del 10/02/2013
Professor Lo Piparo, lei l’anno scorso ha pubblicato, I due carceri di Gramsci, in cui avanzava la tesi che un quaderno di Gramsci fosse scomparso. Ora con L’enigma del quaderno sviluppa ed approfondisce questa tesi con nuove ipotesi. Cosa è cambiato nell’arco di tempo che separa i due volumi?
«L’enigma è la continuazione dei Due carceri. Ho continuato a lavorare sull’argomento e ho visto che del mio sospetto esistevano più prove di quelle che io pensassi. Da qui nasce il secondo libro. Ad esempio in una lettera della cognata Tatiana del 25 maggio 1937 si dice che i quaderni di Gramsci sono in tutto 30 pezzi ma nella traduzione di Rossana Platone la frase diventa i quaderni sarebbero circa una trentina. Approssimazione strana».
Giuseppe Vacca, direttore dell’Istituto Gramsci, afferma che le pagine del suo saggio sono «ossicini di Cuvier», cioè ricostruzioni fantasiose basate su indizi trascurabili. Lei, che mostra simpatie liberali, però vanta un temibile alleato all’interno dell’opposto schieramento: Luciano Canfora.
«Ho lavorato per un anno intero a stretto contatto con Canfora. Il suo aiuto è stato veramente straordinario. Su Gramsci politico forse la pensiamo in maniera diversa. Siamo però animati dalla stessa passione per la verità, anche se a volte la verità può essere sgradevole. L’articolo che Canfora ha pubblicato di recente sul Corriere è molto utile perché de-ideologizza il problema del quaderno mancante. C’è anzitutto una questione filologica da appurare: perché, ad esempio, i testimoni non sono mai d’accordo sul numero dei quaderni?».
Secondo Massimo D’Alema, Togliatti tutt’al più avrebbe «ibernato» il quaderno, in attesa di una posterità meno turbolenta.
«Quando Canfora mi riferì della dichiarazione pubblica di D’Alema rimasi impressionato. L’idea di D’Alema coincideva con quella che mi ero fatto studiando i documenti. Bisognerebbe chiedere a D’Alema se la sua dichiarazione fosse il risultato di un ragionamento, oppure abbia pescato nella memoria qualcosa sentito a Botteghe oscure».
Perché Gramsci, chiede che i quaderni siano inviati in URSS, alla moglie? Non poteva pregare Sraffa di tenerli nella cassaforte del banchiere Mattioli?
«Gramsci, non solo in carcere ma anche nelle cliniche, non ha alcuna autonomia. I suoi contatti col mondo passano per la cognata Tania e Sraffa. Tania è una funzionaria dei servizi sovietici e Gramsci lo sa. Sraffa è un agente dell’Internazionale comunista e si muove in sintonia con Togliatti. E Gramsci considera Togliatti il responsabile della sua mancata liberazione. Se sai di trovarti in punto di morte e vuoi affidare a qualcuno i tuoi scritti, in queste condizioni che fai? Giochi la carta degli affetti. Affidate i miei quaderni ai miei familiari come ricordo. Poi si vedrà».
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Inserito su www.storiainrete.com il 12 febbraio 2013
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