di Fabio Figara per Storia in Rete del 17 luglio 2025
All’interno di una grande sala addobbata con sfarzo, alcune centinaia di alti prelati, accompagnati da diaconi e consiglieri, attendevano l’ingresso dell’imperatore per l’inizio del primo grande Concilio ecumenico della cristianità, da lui stesso voluto, a Nicea (oggi İznik, in Turchia), a mezza giornata di viaggio da Nicomedia, nella primavera del 325.
Eusebio di Cesarea, vescovo, storico della Chiesa nonché futuro consigliere e biografo di Costantino, descrisse l’ingresso della suprema autorità romana nell’aula come l’apparizione di «un angelo di Dio, sceso dal Cielo, luminoso nei suoi vestiti lucenti, radioso della focosa vampa della porpora e ornato dello scintillio chiaro dell’oro e delle pietre preziose». Era un momento cruciale per la storia del cristianesimo ma anche dell’impero. Infatti, sin dalle origini, la Chiesa aveva sofferto di numerosi problemi interni, dispute dottrinali che causavano inevitabilmente scontri tra comunità, minandone così l’unità: al centro delle discussioni si trovavano l’interpretazione del messaggio di Cristo, l’identità e la relazione tra Dio Padre e il Figlio, i concetti di grazia e di predestinazione. Fu così un fiorire continuo di insegnamenti alternativi e di eresie a causa delle diverse interpretazioni della Parola, elaborate e divulgate da personaggi con una certa cultura: il messaggio di Cristo si stava diffondendo sì tra gli strati più umili della popolazione, tra gli artigiani, i soldati e i poveri, ma anche tra molti intellettuali e filosofi, che si trovarono così a sviluppare vari filoni di pensiero. Gli gnostici, ad esempio, riprendevano il dualismo manicheo tra Bene e Male, oppure sette come quella dei catafrigi di Montano dell’Asia minore, che si definiva addirittura Paraclito (Consolatore del popolo cristiano, che in realtà è attributo dello Spirito Santo), e che predicava l’ascetismo e la rinuncia alla procreazione.
Nonostante queste difficoltà, la Chiesa aveva comunque continuato il suo processo di indirizzo dottrinale, definendo lentamente il canone neotestamentario, avendo alla base i quattro Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ma anche procedendo con lo sviluppo del proprio assetto istituzionale, riprendendo l’impostazione amministrativa imperiale e organizzandosi in diocesi (che rispecchiavano all’incirca l’area dei municipi), in chiese metropolitiche (come Efeso, Tessalonica, Corinto, Cartagine e Milano) presiedute da metropoliti (futuri arcivescovi) per il controllo giuridico e amministrativo, e in patriarcati (come Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e, successivamente alla sua proclamazione, Costantinopoli). La Chiesa aveva inoltre superato la sofferenza di molte persecuzioni ma Costantino e Licinio, incontrandosi a Milano nel febbraio del 313, avevano emesso un editto a favore dei cristiani (aggiornando un altro editto elaborato da Galerio a Sardica due anni prima), specificando soprattutto che la religione cristiana era da considerarsi tollerata e lecita, come le altre presenti nell’impero.
Anche se a Costantino non interessavano troppo le speculazioni teologiche e filosofiche, capì che le divisioni interne alla sempre più diffusa religione cristiana, soprattutto nella parte orientale dell’Impero, avrebbero potuto generare non pochi problemi sul piano sociale e, conseguentemente, politico ed economico. Fu così che l’imperatore decise di organizzare il Concilio nel tentativo di porre fine alle dispute teologiche relative ad una serie di questioni: anche se i documenti ufficiali della riunione sono andati perduti, sappiamo da varie fonti che, oltre a definire la data della Pasqua (la prima domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera) e la giurisdizione dei vescovi, incluse le modalità per indire sinodi e affrontare eventuali scismi e problemi interni, si era reso necessario specificare la dottrina sulla natura stessa del monoteismo, del rapporto tra Dio Padre e Gesù Cristo, se il Figlio è solo uomo oppure anche Dio, se fosse sempre esistito o se Dio lo avesse creato oppure generato successivamente alla Creazione, punto cruciale che tormentava da sempre gli animi dei credenti e fomentava scontri e violenze. Lo Stato si intrometteva così nella vita della Chiesa, e Costantino, nella concezione di pontifex maximus, suprema carica religiosa che da sempre era stata prerogativa imperiale, pretendeva la soluzione di queste diatribe per il raggiungimento dell’armonia sociale. E all’imperatore, che con l’Editto di Milano aveva iniziato a cambiare le sorti dei cristiani, i vescovi non potevano certo rifiutare un invito ufficiale.
Il principale scontro tra i vescovi avvenne in merito all’eresia ariana. Ario, presbitero di Alessandria d’Egitto dal 312, sosteneva che non era possibile porre sullo stesso piano Dio Padre con Gesù Cristo Figlio, perché l’eccezionale importanza della prima figura trinitaria non poteva essere in alcun modo messa in discussione: solo il Padre era da considerarsi Dio, eterno, immutabile, Creatore ma non creato; Gesù, come Figlio, era stato invece creato dal Padre in quanto esistenti già gli uomini, intermediario tra il Cielo e la Terra sì, ma non con le peculiarità divine del Padre. Dunque, per Ario, non sarebbero della stessa sostanza. Altri, invece, come il giovane diacono Atanasio di Alessandria, futuro vescovo e Santo, ne difendevano l’assoluta uguaglianza. Altri ancora affermavano invece che il Figlio fosse simile ma non uguale al Padre. È bene tuttavia precisare che non siamo in grado di conoscere con certezza la dottrina proposta da Ario, ma che abbiamo solo informazioni lasciateci da altri, spesso suoi detrattori: a parte alcune epistole, della sua opera conosciuta, il poema Thalìa, in cui erano esposti i principi della sua teologia, rimangono solo alcuni frammenti. Ma è certo che aveva ottenuto molti consensi anche tra prelati importanti, alcuni dei quali presenti alla corte imperiale e diretti consiglieri e confidenti di Costantino stesso.
Su tale spinosa questione, alla fine si giunse ad un compromesso: i vescovi presenti, quasi tutti orientali (il Papa di Roma aveva inviato solo pochi rappresentanti) stabilirono che il Figlio è consustanziale al Padre (Omooùsios), formula che ancora l’assemblea recita nel Credo durante la funzione liturgica dopo 1700 anni. Contestualmente, il concilio decise l’esilio di Ario, e considerò la sua dottrina eretica. Tuttavia continuò la sua diffusione, insieme ad altre quali l’eresia donatista e quella pelagiana, permanendo anche all’interno della stessa corte imperiale, dove già aveva posto in precedenza delle profonde radici: Costantino aveva indetto il Concilio pur non essendo battezzato ma, successivamente, avrebbe ricevuto il primo sacramento sul letto di morte da parte di un altro Eusebio, vescovo ariano di Nicomedia, suo fidato consigliere già da prima dell’incontro di Nicea; il figlio dell’imperatore, Costanzo II, salito al trono, avrebbe poi addirittura favorito l’arianesimo, arrivando ad annullare quanto stipulato nel consesso ecumenico del 325. La dottrina di Ario verrà poi condannata nuovamente nel concilio di Costantinopoli del 381, e così ufficialmente eliminata all’interno dell’impero romano; ma, nel frattempo, si era diffusa tra i barbari occidentali, sopravvivendo: il vescovo goto Wulfila, che aveva tradotto la Bibbia per il suo popolo, aveva abbracciato le tesi di Ario. L’eresia si diffuse anche tra Visigoti, Ostrogoti, Vandali, Burgundi e Longobardi, divenendo un elemento peculiare della loro cultura.
Oggi Nicea e la ricorrenza del Concilio sono divenute simbolo di un lungo, seppur difficile, percorso condiviso tra cattolici e ortodossi, che potrebbe aprire spiragli di ulteriori avvicinamenti. Riprendendo un progetto di Papa Francesco, entro la fine dell’anno il nuovo Pontefice Leone XIV ha inoltre intenzione di recarsi proprio a Iznik per officiare una Santa Messa e ricordarne l’importanza per tutta la cristianità. Oggi come allora.