Filmare una partita di tennis correndo continuamente nella stessa direzione della pallina è un’impresa che, oltre a risultare inattuabile, rischia di far vedere agli spettatori solamente una sequela di immagini sfocate. Si tratta di una metafora utile a far capire come il tentativo – da parte di un folto gruppo di intellettuali vicini al Partito Comunista Italiano – di nascondere, e, ancor più grave, modificare i tragici eventi che hanno caratterizzato la storia dell’Unione Sovietica nei decenni, abbia generato una grande confusione negli iscritti e non solo. Per comprendere, ad anni di distanza, quanto una certa sovietologia abbia nel nostro paese pervaso la vita del maggior partito di opposizione è necessario ripercorrere anche singole ma significative esistenze: non solo però quelle degli storici che dedicarono i loro studi al Cremlino ma anche il percorso intellettuale dei corrispondenti inviati a Mosca.
Di Veronica Arpaia per Storia in Rete
Questi avrebbero dovuto informare l’Italia circa gli eventi d’oltre cortina: giungevano invece notizie che, provenendo da un mondo inaccessibile ai più, erano in realtà già filtrate offuscando così in favore della leggenda, scomode verità. E’ in questa direzione che si articola il saggio di Ettore Cinnella, Il «compromesso storiografico». Il Pci e il giudizio storico sull’Urss (56 pp.), in uscita nel prossimo numero di «Nuova Rivista Storica», diretta da Eugenio Di Rienzo. L’autore si sofferma in particolar modo sulla figura di Giuseppe Boffa, inviato dell’Unità a Mosca dal 1953 al 1958 e poi ancora dal 1963 al 1964. Come vedremo, l’influenza di questo prolifico giornalista su militanti e dirigenti del PCI permeò di sé anche tutti gli anni ’70 e fu più ampia di quella di molti studiosi di non minor rango come quella dello storico Giuliano Procacci, fondatore della scuola sovietologa di Firenze o quella del filosofo della scienza Ludovico Geymonat.
Il primo ostacolo che Boffa dovette affrontare fu quello della morte di Stalin che avvenne nello stesso anno del suo approdo moscovita. E’ noto che il ’53 rappresenti una data decisiva nella storia dell’URSS da molti punti di vista. L’autore di questo interessante saggio mette in particolare risalto l’intesa del giornalista con il segretario del PCI, Palmiro Togliatti. I due decisero di comune accordo, di non far parola in Italia della condanna che il nuovo leader, Krusciov, andava sbandierando nei confronti del suo predecessore. Mentre altre testate, come quella del Corriere della Sera il cui inviato era Piero Ottone, riportavano gli eventi così come la realtà li offriva ai loro occhi, l’Unità li trasformava, o forse addolciva col fine di narcotizzare le menti. Lo stesso avvenne con i fatti di Ungheria del 1956: sempre Togliatti, nel timore che quei fermenti indebolissero il partito, inviò al Cremlino una lettera in cui esprimeva la necessità di un intervento atto a sedare gli animi. Fu alla stregua di tali orientamenti che Boffa riempì in quei giorni le sue colonne di altri eventi. Nel medesimo anno si era aperta la nota crisi di Suez, un’occasione perfetta per sviare l’attenzione del pubblico. Già dopo dodici mesi dal suo rientro in patria, nel ‘59 il giornalista diede alle stampe le sue Memorie del Comunismo (Ponte alle Grazie) non senza aver lasciato che Togliatti le rileggesse. Si trattava di una testimonianza in presa diretta, una raccolta apologetica, che pur ascrivendo a Stalin le colpe pubblicamente riconosciutegli dal XX congresso del PCUS, vedeva nell’URSS il sistema sociale più progredito al mondo: vinse il Viareggio del giornalismo. A seguito del suo secondo rientro in Italia nel 1965, Boffa diede alle stampe un nuovo saggio, Dopo Krusciov (Einaudi) dedicato in particolar modo alla collettivizzazione delle campagne, un’analisi in cui sembrava timidamente incline a riconoscere gli effetti frenanti di quelle politiche sullo sviluppo dell’agricoltura sovietica. Nel corso degli anni il giornalista pubblicò altre opere, in esse non tradì mai i suoi ideali ma vennero alla luce convinzioni meno nette, affermazioni più lontane da cieche apologie sebbene talora sibilline e non sempre lineari. Il Compromesso storiografico di Cinnella, partendo dalla felice scelta del titolo, evidenzia anche come Boffa, Procacci, Geymonat e non solo, abbiano fondato i propri studi su un doppio errore: una base documentaria unilaterale (cioè gli atti ufficiali del partito) e una premessa metodologica secondo la quale l’intellettuale collettivo fosse l’unica lente attraverso cui guardare e leggere il mondo. Si può dire inoltre che la produzione di Boffa era tanto prolifica quanto quella di Balzac, almeno quantitativamente. Nel ‘76 egli pubblicò un nuovo e corposo volume: Storia dell’Unione Sovietica, I, Dalla rivoluzione alla seconda guerra mondiale, Lenin e Stalin, 1917 – 1941 (Mondadori). L’opera sembrava interrogarsi in modo più distaccato sugli anni ’30 del regime ma salvava l’Unione Sovietica come unico e inedito esperimento nella storia del mondo; al massacro di Katyn si dedicavano poche righe di sfuggita. Il secondo volume, Dalla Guerra patriottica al ruolo di seconda potenza mondiale: Stalin e Krusciov, 1941 – 1964, vide la luce tre anni più tardi.
Il Compromesso Storiografico è un saggio denso e interessante, forse talora si lascia andare ad aggettivazioni eccessivamente forti che non hanno sempre necessità di essere a causa del ricco corredo documentario a supporto delle tesi dell’autore. Questi evidenzia le timide modifiche delle analisi di Boffa anche a partire dal periodo della nuova dirigenza Berlinguer senza entrare nelle complesse vicende dell’eurocomunismo.
Cinnella chiude le sue pagine con un interrogativo volto a comprendere come persone di cultura e avvezze all’indagine storica abbiano rinunciato al loro pur esistente spirito critico. Tuttavia è noto come essere liberi dalle proprie appartenenze sia esercizio faticoso, senza contare poi che extra Ecclesiam, nulla salus.