di Antonio Socci da Libero Quotidiano del 3 dicembre 2021
È passato anche il centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano e sembra che nessuno se ne sia accorto. Di quel partito che fu il più forte Pc d’occidente, che raccolse l’adesione appassionata di milioni di militanti, di quel partito che aveva avanzato la pretesa di essere l’Italia migliore, sembra non rimanga nulla. Dissolto. Per questo centenario è uscito il libro sentimentale di Fabrizio Rondolino, “Il nostro Pci. 1921-1991 un racconto per immagini” (Rizzoli) e quello di Mario Pendinelli e Marcello Sordi, “Quando c’erano i comunisti” (Marsilio). Eppure sono ancora fra noi – attivi politicamente – persone che furono dirigenti di quel partito. Come sono fra noi tanti che furono militanti, anche giornalisti.
E il popolo comunista? Vittorio Foa, nel libro “Il silenzio dei comunisti”, scrive: “erano milioni in tutto il mondo, e anche in Italia, gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti. In Italia pochi anni fa piú di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in grande parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria”. In realtà i dirigenti del Pci cambiarono il nome del partito e da allora sembra quasi che in Italia non ci sia mai stato un comunista. Eppure al Congresso del Pci del marzo 1989, il segretario Achille Occhetto rispose a Craxi (che lo invitava a cancellare il nome “comunista”) richiamandosi proprio all’autore del “Manifesto del partito comunista” e indicando ancora nel comunismo “un futuro nel quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti”. Per cui, concluse, “non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato”. Appena otto mesi dopo, mentre crollava il Muro di Berlino, Occhetto e il Pci si precipitarono a cambiare il nome glorioso. Ma alle masse di lavoratori che avevano creduto nel Pci nessuno ha mai detto che si erano sbagliati o che erano stati ingannati.
L’utopia comunista aveva conquistato metà del pianeta promettendo il paradiso in terra, ma a coloro che in Italia credettero a questa promessa nessun dirigente ha detto che in realtà era stato fabbricato l’inferno. Nemmeno gli intellettuali che per decenni avevano studiato e chiosato Marx e Gramsci hanno mai fatto i conti con quello che è stato veramente il comunismo. Di colpo, con una disinvoltura stupefacente, i politici provenienti dal Pci si sono messi a sventolare le bandiere del mercato e dell’Europa liberista (contro cui prima si erano schierati) e perfino dell’occidente atlantico che avevano combattuto per decenni. I post comunisti hanno abbracciato definitivamente l’ideologia di Pannella (tranne il garantismo) e si sono messi addirittura a fare agli altri l’esame di liberalismo e fedeltà all’Occidente.
Così, paradossalmente, proprio con la chiusura del Pci questa sinistra è andata al potere, arrivando a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema e addirittura al Quirinale con uno storico dirigente comunista (fin dai tempi di Togliatti): Giorgio Napolitano. Il libro che pubblicò nel 2006, alla vigilia della salita al Colle, “Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica” (Laterza), rappresenta bene questo singolare modo dei comunisti italiani di (non) fare i conti con la propria storia. Basta un “dettaglio” (non proprio irrilevante): se scorrete l’indice dei nomi non troverete né Solzenicyn, né Sacharov, né Karol Wojtyla.
Antonio Socci