HomeRisorgimento“Il Capobianco” e il primo moto carbonaro del Risorgimento

“Il Capobianco” e il primo moto carbonaro del Risorgimento

Non avvenne in Piemonte, ma in Calabria. Solo che questo pezzo importante della storia del nostro Paese, purtroppo, è stato dimenticato. Così com’è stato dimenticato, da molti ma non da tutti, l’apporto (anche a livello di vite umane) dato alla causa dell’unità d’Italia da molti meridionali, calabresi e siciliani. In queste due regioni, prima ancora dei moti piemontesi del 1820-21, prima ancora del sacrificio dei fratelli Bandiera (1844), si scrissero alcune tra le più belle pagine della nostra storia risorgimentale.

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di Tamara Ferrari e Francesca Canino dal Quotidiano della Calabria dell’11 settembre 2011

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Contrariamente a quanto sostengono i libri di storia, il primo moto del Risorgimento italiano non avvenne nel 1820-21, ma 10 anni prima. E non avvenne in Piemonte, ma in Calabria. Solo che questo pezzo importante della storia del nostro Paese, purtroppo, è stato dimenticato. Così com’è stato dimenticato, da molti ma non da tutti, l’apporto (anche a livello di vite umane) dato alla causa dell’unità d’Italia da molti meridionali, calabresi e siciliani. In queste due regioni, prima ancora dei moti piemontesi del 1820-21, prima ancora del sacrificio dei fratelli Bandiera (1844), si scrissero alcune tra le più belle pagine della nostra storia risorgimentale. Pagine che oggi andrebbero recuperate, rilette e rivalutate, primo fra tutti sui libri di storia.

Noi cominciamo a raccontarvene qualcuna. E partiamo da un uomo che già nel 1811, cinquant’anni prima dell’Unità d’Italia, coltivava il sogno di un governo costituzionale e di una nazione (avete capito bene: di una nazione non di una provincia o regione) libera dallo straniero. Quest’uomo si chiamava Vincenzo Federici, ma tutti lo conoscevano con l’appellativo di “Capobianco”, il soprannome datogli dai suoi compaesani perché ancora ventenne aveva tutti i capelli bianchi. Nato nel 1772 ad Altilia, piccolo centro della provincia cosentina, nel 1799 fu uno dei fautori della Repubblica Partenopea in Calabria e 12 anni dopo promotore, con il nipote, il medico Gabriele De Gotti, della prima vendita carbonara del Mezzogiorno.

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Nel 1813 – anche dopo aver ottenuto l’appoggio di Lord William Bentinck, che aveva da poco concesso la Costituzione alla Sicilia – Federici capeggiò la rivolta contro i francesi in nome della Costituzione e della libertà. Tradito da uno dei suoi seguaci, fu catturato e giustiziato il 26 settembre 1813 a Cosenza. La sua morte diede il via al sollevamento dei carbonari abruzzesi, cui via via fecero seguito le rivolte che portarono poi all’Italia unita. La sua vicenda, che i nostri libri di storia non raccontano (ma molti tra quelli francesi e inglesi sì!) la trovate di seguito. È la storia di un uomo che andò fiero al patibolo in nome della libertà. Una storia che affascinò i suoi contemporanei, anche all’estero: Alexandre Dumas ne parlò nella sua storia dei Borbone di Napoli, Mary Shelley (la scrittrice di Frankenstein) gli dedicò un capitolo del libro “A zonzo per la Germania e per l’Italia”, Giovanni Verga s’ispirò a lui quando scrisse il suo primo romanzo (I carbonari della montagna).

È una storia, quella del Capobianco, che andrebbe ancora approfondita. Ci stiamo lavorando. Intanto, eccovi un assaggio.

Il primo moto carbonaro del Risorgimento

di Francesca Canino

Patriota o brigante. Forse patriota-brigante in un tempo in cui il valore semantico delle due parole si sovrapponeva e confondeva e ‘arrivotava’ la storia del Sud. Torrevetere 1813: l’antica caput Bruttiorum si riconfermava teatro di vicende umane sulla scena del Risorgimento Italiano, ove un palco di morte era stato preparato in un giorno di settembre, tra gli alberi acquatici che popolavano il colle. L’estate era appena terminata, ma non aveva ancora portato via i venti caldi delle sommosse che dal Savuto si erano propagati alla città della confluenza. Un uomo, bianco di capelli, si avviava verso le forche innalzate durante il giorno, maledicendo la razza tirannide, ovvero gli invasori francesi: “Che i Calabresi vendichino il mio sangue” e rivoltosi ai carnefice gli si offrì dicendogli: “Fate presto”. E tosto il suo volere fu fatto.

Era la sera del 26 settembre e Vincenzo Federici, detto il Capobianco, giudicato ribelle e traditore, mai più avrebbe ‘cospirato contro il Governo della Provincia di Calabria Citra in unione di gente armata’. Per le strade della città né turbe, né moltitudini, ‘raro, ma non ignobile contegno del popolo’ dirà qualche tempo più tardi Luigi Maria Greco: nessuno aveva voluto assistere alla fine di un uomo che aveva rappresentato la lotta, la speranza, l’ideale della libertà.

Il ribelle – ‘Solerte massajo’ dagli scarsi poderi, di non elevati studi, ma attore precipuo nel Savuto di inizio ‘800, Vincenzo Federici nacque ad Altilia nel 1772. Lo storico e letterato cosentino Luigi Maria Greco lo descrisse come uomo “di tempra gagliarda, di avvenente vigoria, ma grave e dagli occhi vividi e scintillanti; di vantaggiosa statura, sagacia e dirittura di giudizio; persuasivo nel ragionare. Era senza ambizione; obbediente co’ le autorità, ossequioso e senza bassezze co’ gli amici; cordiale, benevolo e senza superbia co’ gli inferiori; largo co’ i bisognosi; senza jattanza, insofferente però alle offese e pronto a punire di sua mano chiunque avesse osato offenderlo o provocarlo senza ragione”. Era soprannominato Capobianco a causa della precoce canizie iniziata quando non era ancora ventenne e che ne accentuò il fascino ed il carisma. Forse il segno di un destino che lo avrebbe visto ribelle carbonaro, paladino della libertà e combattente nelle terre natie ed oltre, di indole impetuosa, ma tuttavia amante fedele e buon padre di famiglia, come si addice al calabrese per antonomasia. E proprio la Calabria vide nascere la prima vendita carbonara nel 1812, ad Altilia, un piccolissimo borgo che ‘aveva tolto il nome all’altura’ e che sotto la spinta del medico Gabriele de Gotti, si propagò a Cosenza e nei paesi limitrofi ed in seguito nel catanzarese.

I cugini, ovvero gli adepti alla Carboneria, erano uomini di varia estrazione sociale e spesso di diverso orientamento politico, accomunati dall’idea dell’unità e libertà della Patria. Essi si raccolsero inizialmente nella vendita di Sparta, la Carboneria cosentina, sotto il comando di Federici, uomo dal focoso temperamento che venne rubricato presso la Gran Corte Criminale di Cosenza per delitti comuni e quindi perseguitato con veemenza, prima della nomina a Capitano delle Guardie civiche del circondario, nomina conferitagli dal generale Manhès anche per distoglierlo dalla sua attività carbonara. Il generale, infatti, non annoverò Vincenzo Federici tra i briganti.

La Carboneria calabrese, desiderosa di ottenere una forma di governo rappresentativo, fu in un primo momento decisamente ostile al Governo Borbonico e aderente al Governo dei Francesi, che considerò questa prima fase non come l’operato proprio del brigantaggio, ma come un’azione diretta ad ottenere un regime più libero. Già in questo periodo, però, il re Gioacchino Murat, riferendosi ai carbonari quando li denominò ‘patrioti’, presagì il pericolo futuro e dubitò delle loro idee, allorchè il 25 febbraio 1809 scrisse impensierito a Napoleone che ‘le fila dei patrioti si ramificavano in tutta Italia’. L’identificazione tra la denominazione di carbonaro e quella di patriota era così entrata nell’uso comune del tempo.

La sommossa – Vincenzo Federici cercò dapprima un accordo con i Carbonari di Sicilia perchè la Calabria insorgesse e tentò una rivolta in occasione della fiera del Savuto, il 15 agosto 1813, da cui si levò il grido di libertà che avrebbe dovuto far sollevare anche i Comuni vicini. Qualche settimana più tardi, Aprigliano e Scigliano insorsero e piantarono i loro alberi della Libertà, ma immediata fu la risposta del Comandante della Provincia Giuseppe Iannelli, che soffocò la rivolta ed arrestò numerosi carbonari. Tra questi era anche il Capobianco che, per ordine del generale Manhès, fu rimesso in libertà. L’atteggiamento del generale francese, inviato in Calabria per sterminare i briganti, aveva un duplice scopo: redimere Federici e convincerlo a sostenere la monarchia. Bisognava “fare ben comprendere a quello sciagurato, che si è voluto trarre in errore sì grossolano, a quali pericoli positivi va ad esporsi, ascoltando i perfidi suggerimenti di coloro che, vili per propria natura, espongono lui a bersaglio di tutto lo sdegno delle autorità, ed alla esecrazione pubblica” e convincerlo a presentarsi al quartier generale da dove “appena la criminosa effervescenza che tempesta lo spirito dei suoi compatrioti, sarà calma, egli rientrerà tranquillo nei suoi focolari”.

Federici fu convocato a Cosenza, qui promise di obbedire all’ordine di Manhès e di recarsi al quartier generale di Campo Calabro. Convinti dei buoni propositi del Capobianco, gli uomini di Manhès festeggiarono l’avvenimento con un banchetto a cui presero parte le autorità della Provincia, gli ufficiali della Guardia civica di Cosenza ed il generale Garnier. Intanto, il sacerdote carbonaro Carlo Bilotta di Carlopoli, avvisò Federici di interrompere momentaneamente le attività rivoluzionarie, senza abbandonare la nobile causa dell’indipendenza. Era necessario attendere tempi migliori. Al termine del convivio, il Capobianco abbandonò Cosenza con uno stratagemma e si rifugiò con i suoi fedelissimi nella Rocca di Altilia.

Scattò immediatamente un ordine di cattura: il Comandante Iannelli si diresse verso Altilia con un eccezionale spiegamento di forze militari e non riuscendo nell’intento, ordinò, per ritorsione, di saccheggiare il paese. Federici scampò alla cattura ed organizzò gli affiliati per sferrare l’attacco finale: la forza pubblica fu disarmata, i rivoltosi si appropriarono di convogli di polveri, bruciarono i registri dei tributi e assediarono Cosenza dopo aver piantato alberi della Libertà in ogni paese da cui erano passati.

Le autorità presenti a Cosenza si rifugiarono all’interno del Castello svevo con una guarnigione al comando del cavaliere De Martigny; Federici aveva invece ordinato ai Carbonari di dividersi in due drappelli, uno fu inviato nel distretto di Catanzaro, l’altro, sotto il suo comando ed insieme ad una compagnia raccolta da Pasquale Rossi, si spinse sulle alture di Torrevetere. Era il 18 settembre, i Carbonari di Federici tentarono invano di impadronirsi del Castello e di far insorgere gli abitanti dei Casali contro i Francesi.

L’Intendente Iannelli contro di loro fulminava il seguente bando: “Abitanti della Provincia, Capobianco con 30 briganti sta cercando di far seguaci e turbare la  pubblica tranquillità percorrendo le campagne. Ma i Comuni che lo riceveranno e lo lasceranno passare sul rispettivo territorio, saranno subito militarmente trattati. Già numerose colonie marciano contro queste orde”.

Ma un equivoco intervenne nello svolgimento del piano che segnò il fallimento della sommossa e Federici si ritirò nei pressi di Aprigliano, dove era atteso da moltissimi amici. Braccato ormai dal generale Manhès, il Capobianco comprese che doveva rifugiarsi in un luogo distante da Cosenza e si diresse a Grimaldi, dal fidato amico De Rose.

Il tradimento – Il generale Manhès, intanto, giunse a Cosenza e durante un banchetto nel palazzo della Baronessa Mauro, organizzò il piano per la cattura del Capobianco. Fu un affiliato alla Carboneria, Carlo Mileti di Grimaldi, che trovandosi presso il fratello Raffaele, Vicario generale del vescovo di Nicastro, gli riferì che il Capobianco si trovava a Grimaldi, in casa De Rose. Il Vicario informò subito il generale Manhès con una lettera recapitatagli proprio da Carlo.

Il rifugio del ribelle era ormai svelato e sul cadere del 25 settembre, Manhès organizzò un drappello di ufficiali delle Guardie civiche della Calabria Ultra, guidato da Carlo Mileti, che aveva l’ordine di catturare Federici. Essendo il Mileti suo amico, non avrebbe destato sospetti: infatti, egli giunse facilmente dal capo carbonaro che trovò solo e seduto vicino alle sue armi. I traditori gli buttarono un cappotto sulla testa e soffocando le sue grida lo legarono ed uscirono da una porta segreta, lo caricarono su un cavallo come un fascio di fieno e lo trasportarono a Cosenza. Fu condotto alla presenza di Manhès, dinanzi al quale tenne un comportamento fiero.

Si concludeva così il primo Moto carbonaro del Risorgimento.

La Condanna – Fu subito nominata una Commissione militare che riunita nel Palazzo Mauro giudicò in tutta fretta il Federici. Il generale Manhès gli pose queste terribili domande: “Perchè inalberasti stendardi di ribellione? Perchè invitato con mio foglio non mi raggiungesti?”. Federici rispose: “Non so leggere”.

Nominato d’ufficio un difensore nella persona dell’avvocato Gaetano Greco, che implorò una condanna di deportazione a vita, il Capobianco fu tuttavia giudicato colpevole di ribellione e tradimento. Il Relatore della Commissione militare, alla lettura della sentenza commosse le milizie e dispose anche che il fisco si sarebbe dovuto impossessare dei beni del condannato e che, ma questa è una parte controversa, l’intera famiglia del Federici ‘avrebbe avuto bando dal reame’. La sera del 26 settembre alle falde del colle Vetere, ‘vecchio’ sito romano e via d’accesso alla città per chi proveniva dal Savuto, il Capobianco fu giustiziato.

Scrisse Luigi Maria Greco: “La notte viene vinta da innumerevoli fari che illuminano l’oscuro luogo nel quale il triste sacrifizio fu appieno consumato, col ridursi in cenere quelle misere spoglie e col disperdersi quelle ceneri al vento”. Tutti i traditori di Federici furono in seguito uccisi dai Carbonari e la commemorazione del Capobianco fu celebrata nelle vendite d’Italia.

Il Moto carbonaro del 1813 capeggiato da Vincenzo Federici, non è riportato sui libri di testo scolastici, né su tanti altri volumi di storia. Eppure, così come i Moti napoletani del 1820 o quelli piemontesi dell’anno successivo, l’insurrezione nel cosentino mirava a liberare la Calabria dallo straniero ed a riportare sul trono Ferdinando IV di Borbone, se questi avesse concesso una Costituzione. La figura del Capobianco divenne, tuttavia, così leggendaria da ispirare diversi scrittori, da Mary Shelley, la scrittrice di ‘Frankenstein’, che dedicò un intero capitolo del suo libro di viaggi tra Germania e Italia al ‘Capo Bianco’, ad Alexandre Dumas padre che lo ricordò ne “I Borboni di Napoli”. Anche Giovanni Verga, dopo aver conosciuto il figlio di Vincenzo Federici, Francesco, che gli raccontò le gesta del padre, scrisse il suo primo romanzo “I carbonari della montagna”, ispirato ai fatti della Carboneria calabrese.

La pronipote del Capobianco

Nel programma delle celebrazioni in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una targa commemorativa in onore di Vincenzo Federici è stata apposta a Cosenza vecchia. Intanto apprendiamo alcuni aspetti sconosciuti sulla vita del Capobianco, grazie ad una sua discendente, Tamara Ferrari, giornalista di Altilia che oggi vive e lavora a Milano. La sua famiglia custodisce alcuni documenti e soprattutto un patrimonio di notizie tramandate oralmente da padre in figlio che ci consentono di ampliare il quadro su uno dei protagonisti del primo moto carbonaro del Risorgimento italiano.

Chi era Federici?

«Un patriota sul quale, dopo la morte, sono state scritte tante inesattezze. Sarebbe ora di fare chiarezza».

Ci faccia qualche esempio.

«Il Capobianco non era un né “solerte massaio” né un “maniscalco”, come molti hanno affermato. Vincenzo Federici era un ricco proprietario terriero. Infatti, era figlio di Giovan Angelo, designato sui documenti del Catasto onciario come ‘Magnifico’, un titolo riservato a chi era un discreto possidente. Il vero cognome era Federico, ma nell’Ottocento fu trascritto con la “i” finale. Nacque ad Altilia, precisamente in località Fornace ed abitò in una casa vicina a quella del medico Gabriele De Gotti, di cui sposerà la zia Maria Angelica. Avranno otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Dopo il matrimonio, accrebbe i beni di famiglia anche con l’acquisto di una pregevole casa appartenuta alla famiglia del letterato Pirro Schettini, che vi abitava nel ‘600. Federici fu sindaco di Altilia tra il 1806 e il 1808, come si evince da un documento tuttora in mio possesso, in un periodo molto complesso nella storia del paese, che prima fu assaltato dai briganti di Malito e poi contò diversi omicidi probabilmente legati agli aspri contrasti tra contadini e borghesia terriera. Di un omicidio fu accusato lo stesso Federici, successivamente amnistiato, ma forse proprio sulla scia di questi avvenimenti il Federici abbracciò gli ideali della Carboneria».

Come si spiega la diffusione della Carboneria nella piccola Altilia?

«In quel periodo i paesini della valle del Savuto, come Altilia e Grimaldi, erano dei veri e propri centri culturali, i rampolli delle famiglie più ricche studiavano a Napoli. Anche il nipote del Capobianco, Gabriele De Gotti, studiò medicina a Napoli, entrò in contatto con la vita sociale e politica dell’allora capitale del regno e divenne amico di Pierre-Joseph Briot, l’ex deputato giacobino, intendente a Cosenza dal luglio 1807 al settembre 1810, che importò gli ideali della carboneria nel Regno di Napoli. Ideali che trovarono subito terreno fertile nel Federici, che già nel 1799 aveva partecipato ai moti rivoluzionari della Repubblica partenopea. Dopo l’arrivo dei francesi nel 1806, Federici all’inizio credette alle loro promesse libertarie e fu filo-francese: firmò l’appello del baroncino di Pietramala per invadere la Sicilia e poi aderì all’appello dei francesi per ripulire le campagne calabresi dai briganti. Federicì partecipò in prima persona alla caccia contro i briganti Bizzarro e Lorenzo Benincasa. Non è un caso che il suo nome compare nell’elenco dei patrioti carbonari del Meridione d’Italia stilato dal re Gioacchino Murat in una lettera inviata a Napoleone il 25 febbraio 1809. Due anni dopo con il De Gotti fondò ad Altilia la prima vendita carbonara. In seguito tra i due uomini nacquero dei dissidi, forse legati alla leadership della vendita, che fu assunta dal Capobianco, noto e stimato in paese perché possidente, ex sindaco e dotato di maggior carisma. Dissidi divenuti inconciliabili quando il Federici improvvisamente divenne antifrancese».

Per quale motivo?

«Federici si rese conto che i francesi non avrebbero mai assecondato gli ideali di libertà e quando venne a sapere che in Sicilia gli inglesi avevano concesso la costituzione, prese contatti con Lord William Bentinck: sperava di raggiungere lo stesso risultato in Calabria. In quel periodo il Capobianco era molto amico del generale Manhès, prendeva lezioni di francese da una cugina della moglie del Manhès, Carolina Pignatelli, figlia del principe di Cerchiara. Ciò dimostra chiaramente che non era analfabeta, come si proclamò al momento della condanna. L’amicizia col , come si evince da una corrispondenza epistolare, giustifica non solo la sua incredulità alla scoperta che il Capobianco era diventato antifrancese, ma anche tutti i suoi tentativi per convincerlo a fargli abbandonare gli ideali di libertà: prima di mettere una taglia sulla sua testa, Manhés tentò in tutti i modi di salvarlo. E dopo la condanna a morte, fu proprio il Manhès a proteggere la moglie e i figli del Capobianco, come lui stesso racconta nelle sue memorie».

Rimangono alcuni misteri sulla fine del Capobianco?

«Sì, alcuni hanno scritto che Federici fu impiccato, ma dai documenti della figlia Filippina che mi sono pervenuti, è riportato chiaramente che fu fucilato, come si conveniva per i reati di cospirazione. Ai familiari, che non erano presenti all’esecuzione, contrariamente a quanto disposto dalla sentenza di morte, non furono confiscati i beni. La moglie e i figli del Capobianco non furono espatriati, come prevedeva la condanna, ma rimasero per volontà del Manhès ad Altilia protetti dal fratello di Federici, Sebastiano, che era un sacerdote. Fu lui che, durante l’assedio del paese ad opera dei francesi che volevano catturare Capobianco, trasferì la moglie e i nipoti del Capobianco a Maione per evitare che venissero usati come ostaggio dai francesi. Altri misteri restano ancora su alcuni momenti della sua vita, che finora non sono riuscita a ricostruire. Di certo i miei trisavoli non ebbero mai una tomba su cui piangere: forse non esiste perché è vero che il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento, come prevedeva anche il giuramento dei Carbonari».

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Inserito su www.storiainrete.com il 26 settembre 2011

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