Cinque anni fa, Günter Grass stupì e scioccò la Germania, raccontando di quando ragazzo, a 17 anni, si arruolò nelle SS. Fu la rottura di un lungo silenzio. Ma fu anche una confessione – contenuta in due pagine e mezzo del libro autobiografico Sbucciando la cipolla – che incrinò, nella percezione della cultura e società tedesche, la figura dello scrittore che nel dopoguerra è stato il faro intellettuale e morale della sinistra.
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di Mara Gergolet per il “Corriere della Sera” del 31 agosto 2011
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Ora, mentre questo libro viene tradotto in Israele e Günter Grass concede un’intervista allo storico israeliano Tom Segev, le sue parole tornano a far discutere e scandalizzare. Ci sono voluti alcuni giorni, perché l’intervista rimbalzasse in Germania, ma l’effetto non di meno è dirompente. Perché Grass torna a parlare di Olocausto, e di vittime della guerra. Stavolta tedesche.
«La follia e il crimine – sostiene Grass – non erano espressi solo nell’Olocausto, e non si sono fermati alla fine della guerra. Di otto milioni di soldati tedeschi che sono stati catturati dai russi, forse due milioni sono sopravvissuti e gli altri sono stati liquidati. E poi ci sono i 14 milioni di rifugiati tedeschi. Metà del Paese è passato direttamente dalla tirannia nazista alla tirannia comunista. Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l’Olocausto non è stato l’unico crimine. Noi portiamo la responsabilità per i crimini nazisti. Ma i crimini portarono anche a disastrose conseguenze per i tedeschi, che a loro volta divennero vittime».
Quella frase, «l’Olocausto non è l’unico crimine», può far sobbalzare un Paese che nel dopoguerra, in un lungo esercizio d’autoanalisi, ha cercato di fare chiarezza – e redimersi – dal proprio passato. E, sebbene nella lunga intervista Grass mostri enorme rispetto per la tragedia degli ebrei – in un tempo in cui in Francia (come denuncia Claude Lanzmann su «Le Monde») la parola Shoah viene bandita dai manuali scolastici – è facile esporsi alle accuse di voler comparare, relativizzandolo, l’annientamento degli ebrei ad altri stermini.
Ma è sulle «vittime tedesche» che Grass ha raccolto le maggiori critiche. La «Sueddeutsche Zeitung» ha affidato la replica, con un intervento in grande evidenza (pubblicato ieri sera sul sito e oggi sul giornale) allo storico Peter Jahn, direttore dal 1995 al 2006 del museo russo-tedesco di Berlino-Karlshorst. Soprattutto quel numero – sei milioni di soldati tedeschi liquidati – assomiglia in modo inquietante al numero delle vittime della Shoah. «Relativizzare – scrive Jahn – lo sterminio di sei milioni di ebrei paragonandolo all’immagine di pura fantasia della liquidazione di 6 milioni di prigionieri di guerra tedeschi, è una cosa che dal punto di vista morale chiede spiegazioni».
Ora, è vero che la discussione sui morti tedeschi sul fronte orientale non è mai stata chiusa: e le forbici oscillano fortemente. Ma Jahn, da parte sua, riporta quello che ritiene il bilancio più recente: oltre tre milioni di soldati catturati, di questi solo la metà rilasciati tra il 1947-1949. Ben lontano dai numeri di Grass. La questione però non riguarda solo i numeri. Piuttosto, il fatto che Grass riparta dalle «vittime tedesche», dai «nostri prigionieri», ossia dal linguaggio della Germania anni Cinquanta, che i conti con il nazismo non aveva ancora cominciato a farli.
O che il premio Nobel tenga in così poco conto la sequenza temporale (e causale) della seconda guerra mondiale: il fatto che a muovere questi orrori – e i milioni di vittime sovietiche – sia stata la macchina da guerra tedesca.
Certo, pensare a un Grass revisionista è troppo. È pur sempre lui lo scrittore che accompagnò Willy Brandt mentre si inginocchiava al ghetto di Varsavia. E a un Tom Segev che gli chiede perché abbia trattato così poco dell’Olocausto nelle sue opere, ricorda che è anche grazie a lui se in Germania è stata pubblicata, negli anni 60, la relazione Stroop (che fece conoscere le dimensioni della Shoah), quella in cui diceva: «A Varsavia non c’è più un ghetto ebraico».
Non fa nessuno sconto neppure a se stesso, alla propria appartenenza alle SS, conclusasi dice – con sua grande fortuna – senza aver dovuto ammazzare nessuno. «Ero giovane e stupido. L’ho nascosta così a lungo perché me ne vergognavo». Grass poi ama Israele, è contro il boicottaggio, vorrebbe dare il Nobel ad Amos Oz («ci provo da anni, ma me lo impediscono sempre»). Però, certo, ha molta voglia di parlare (rivedere?) la storia della sua Germania. Che per Grass non è solo quella dei carnefici, ma anche delle vittime. Magari di se stessi.
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Inserito su www.storiainrete.com il 2 settembre 2011