Il 28 giugno 1914 era domenica. Nel pomeriggio, il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, era al lavoro a palazzo Braschi, intento a esaminare le pratiche accumulatesi sulla scrivania. Squillò il telefono.
di Francesco Perfetti dal Giornale del 18 maggio 2015
Era il ministro degli Esteri, il marchese Antonino di San Giuliano: «Sei tu Salandra? Ci siamo liberati da quella noiosa faccenda di Villa d’Este. Stamattina a Sarajevo hanno assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando». Fu così – con un riferimento alle trattative per l’acquisto di Villa d’Este a Tivoli, proprietà personale dell’Arciduca – che Salandra ebbe notizia della scintilla che avrebbe fatto deflagrare il conflitto mondiale. Al di là dell’aneddoto, l’episodio dimostra che in Italia l’assassinio non suscitò più di tanto emozione: Francesco Ferdinando non era amato per la sua slavofilia e i sentimenti anti-italiani. Gioacchino Volpe scrisse che «il colpo di pistola di Sarajevo cadde come una sassata sopra acque superficialmente calme», non le agitò molto e non diffuse «il senso di una imminente tragedia mondiale». L’attentato di Sarajevo, in realtà, fu la causa occasionale per una guerra le cui premesse esistevano da tempo. La situazione europea di «pace armata», basata sulla contrapposizione delle alleanze e sulla corsa agli armamenti, era in fibrillazione per conflitti latenti: le tensioni franco-tedesche per l’Alsazia e la Lorena, anglo-tedesche per il dominio dei mari, austro-russe per l’egemonia nei Balcani, italo-austriache per le terre «irredente»… A livello intellettuale e di sensibilità collettiva, poi, la «cultura della guerra» era diventata prevalente sulla «cultura della pace». Se è vero che lo scoppio del conflitto colse alla sprovvista il continente, è anche vero, come ha scritto Margaret MacMillan, che esso fu «il prodotto di una lunga storia» e che «l’idea di un anteguerra sereno e spensierato è una costruzione retrospettiva».
Circolava ovunque la convinzione che la guerra sarebbe stata breve e che avrebbe comportato effetti stabilizzanti per le potenze, a cominciare dagli imperi plurinazionali, sottoposte alle spinte centrifughe delle nazionalità. Il calcolo non era realistico e lo si sarebbe visto presto. La Grande Guerra avrebbe fatto calare il sipario sul «mondo di ieri», per usare l’espressione di Stefan Zweig, e avrebbe dato il via alla rappresentazione, come scrisse Karl Kraus, della «tragedia dell’umanità». L’Italia scelse la neutralità. Lo fece perché il trattato della Triplice Alleanza che la legava all’Austria-Ungheria e alla Germania fin dal 1882 era difensivo e non contemplava l’automatismo dell’intervento italiano, ma anche, e soprattutto, perché il nostro governo non era stato – come avrebbe dovuto essere – preventivamente interpellato. Vienna non informò l’Italia dell’ultimatum alla Serbia (se non a cose fatte), violando così la Triplice, temendone l’opposizione e non essendo disposta a considerare ipotesi di salvaguardia o compensazione degli interessi italiani. Le consultazioni italo-austriache, avviate durante la neutralità, rivelarono una sostanziale chiusura di Vienna: le offerte asburgiche di «compensi» erano non solo insufficienti, ma anche offensive e risibili. In questa situazione il destino dell’Italia, se si fosse schierata con la Triplice e questa fosse risultata vittoriosa, sarebbe stato quello, per usare le parole di Salandra, di diventare «il primo vassallo dell’Impero». Neppure la pressante mediazione tedesca del principe von Bulow, interessato quanto meno a ottenere il prolungamento della neutralità al fine di salvaguardare i notevoli interessi economici germanici nella penisola, ottenne risultati apprezzabili: all’Italia sarebbe stato concesso solo il Trentino, mentre a Trieste sarebbe stata garantita una certa autonomia. Giolitti si illuse che, dalla trattativa, l’Italia potesse ricavare «parecchio», ma non c’erano né i presupposti politici, né la volontà asburgica. D’altro canto, i contatti diplomatici intrapresi dal governo italiano, in particolare dal nuovo ministro degli Esteri Sidney Sonnino, si rivelarono più fecondi e si giunse, il 26 aprile 1915, alla stipula del Patto di Londra che prevedeva per l’Italia, in caso di vittoria, Trentino, Tirolo meridionale, Venezia Giulia e parte della Dalmazia. Altro che il «parecchio» di Giolitti! Si trattava dell’acquisto delle «terre irredente», della conclusione del Risorgimento. Il 4 maggio Sonnino comunicò a Vienna la nullità del trattato e il disimpegno dell’Italia dalla Triplice. La guerra era alle porte. Le «radiose giornate» di maggio, egemonizzate dagli interventisti capeggiati dall’esigua ma battagliera componente nazionalista, ne furono la premessa. Dimostrarono che, nonostante la maggioranza del Parlamento fosse neutralista, il Paese era favorevole all’intervento. Il 20 e il 21 Camera e Senato conferivano i pieni poteri al governo guidato nuovamente da Salandra dopo una crisi-lampo durata due giorni. Il 23 maggio l’ambasciatore a Vienna consegnò la dichiarazione in base alla quale l’Italia si considerava in stato di guerra contro l’Austria-Ungheria a partire dalle ore zero del giorno successivo.
Il primo colpo di cannone italiano fu sparato alle 4 del mattino dagli spalti del forte Verena, arroccato in cima al monte omonimo sulla linea di confine col Trentino austriaco. Francesco Giuseppe, quello stesso giorno, diffuse ai «suoi popoli» un proclama che denunciava il «tradimento» dell’Italia dopo un’alleanza ultratrentennale che le aveva consentito di «aumentare i possessi territoriali e svilupparsi a impensata floridezza». Le parole del sovrano alimentarono il mito dell’italiano traditore, ma erano false. La scelta dell’Italia non era stata frutto di un tradimento: i primi a tradire lo spirito e il dettato della Triplice Alleanza erano stati gli austriaci. La Grande Guerra – al di là delle ricostruzioni oleografiche e del «revisionismo» radicaleggiante e «sessantottino» – fu per l’Italia, a costo di sacrifici, la conclusione del Risorgimento.