Forlì, 18 giugno 1914: «Hanno ricominciato i corsi regolari dei treni nella ferrovia, però la stazione è sempre occupata militarmente da una compagnia di alpini. Numerosa guarnigione custodisce la città e le campagne e fa continue perlustrazioni: abbiamo due reggimenti di fanteria (11° e 47°), due squadroni di cavalleria, due battaglioni di alpini e due batterie di artiglieria.
di Giovanni Tassani da Avvenire del 3 giugno 2014
Ora che della sommossa, chiamata sciopero, rimane il durissimo ricordo, si può dire che è stata la prova generale: a un’altra volta l’andata in scena dello spettacolo. Qui, a confronto di Ravenna e dei paesi della Bassa Romagna (non parlo di Ancona e delle Marche) è stato un nulla, padroni com’erano i rivoltosi della situazione. Forlì voleva proclamare una pacifica repubblica senza torcere un capello ad alcuno, ma la plebe scatenata chi la tiene?».
Così conclude la cronaca dei giorni – poi denominati Settimana Rossa – il conte Filippo Guarini, già volontario a Mentana, poi consigliere comunale, responsabile di biblioteca e pinacoteca, buon cattolico, autore di una fonte preziosissima di storia locale: quindici volumi manoscritti di cronache forlivesi giornaliere, corredati di ampia documentazione, dal 1863 al 1921.
La Settimana Rossa era iniziata dopo i fatti di Ancona del 7 giugno: tre giovani repubblicani uccisi dai carabinieri mentre premevano per irrompere in piazza Roma, dove si festeggiava lo Statuto con un concerto. I repubblicani intransigenti, forti ad Ancona – dove Pietro Nenni, proveniente da Forlì, dirigeva il giornale Lucifero – avevano indetto, con l’anarchico Errico Malatesta e i socialisti, un comizio antimilitarista, sostenendo che l’esercito era il supporto di Casa Savoia e andava demolito con essa. Il mito della Repubblica era particolarmente forte in Romagna e contagiò molti, non soltanto i “rossi” (i repubblicani, per il colore delle loro bandiere) ma anche i socialisti, mai usciti da un originario anarchismo che la predominanza di Mussolini, prima a capo della federazione forlivese poi direttore dell’Avanti!, aveva rinverdito, e che trovava sponde negli anarco-sindacalisti dell’Usi.
Dopo i morti di Ancona un ampio arco di aspiranti rivoluzionari optò per la grande scommessa, dando allo sciopero generale indetto dalla riformista Cgl un valore ideologico aggiunto, violento e radicale. Anche personalità come Ubaldo Comandini si lasciarono coinvolgere in un’ondata emotiva che portarono il deputato repubblicano di Cesena a proclamare dal palazzo comunale la caduta del governo del re e’l’assunzione dei poteri da parte del popolo. Ancora a caldo Giovanni Papini definì sul Lacerba il fenomeno come un episodio di «epilessia popolare», mentre Gaetano Salvemini, sulla sua L’Unità, la definirà una «rivoluzione senza programma».
In quei sette giorni la violenza si scatenò anche nelle grandi città, ma in Romagna la furia oltrepassò ogni limite, travolgendo chiese, magazzini e negozi, stazioni ferroviarie, circoli liberali e borghesi. Seguendo le cronache di Guarini per Forlì possiamo leggere che furono il Comune repubblicano e la nuova camera del lavoro a spingere la popolazione allo sciopero, che inizia a mezzogiorno del 9. L’indomani è costituito un “Comitato di protesta contro gli eccidi dei popoli”, mentre tutti i negozi sono chiusi, mancano i giornali, non viaggiano i treni, i fili telegrafici sembrano tagliati, le poste e il gioco del lotto sono invasi, e truppe e carabinieri restano consegnati in caserma. In nottata, avverte Guarini, è stata imbrattata la lapide che ricorda Alessandro Fortis, l’ex repubblicano forlivese che “tradendo la causa” divenne dapprima ministro di Giolitti e poi per un anno presidente del consiglio.
Nella notte del 10, annoterà l’indomani Guarini, è stato assalito il luogo simbolo della città, la chiesa di San Mercuriale. In piazza «una turba di forsennati, profittando del buio in cui era immersa la città, appicca fuoco alla porta. Monsignor Gaudenzio Gaudenzi, primicerio, accortosi del fatto, e non avendo alcuno, corre subito al campanile e suona a rintocchi la campana grossa, con gran sorpresa e terrore di quanti udirono, poi tornato in chiesa cercò alla meglio dal di dentro di spegnere l’incendio». I facinorosi ancor presenti in piazza tentano d’impedire lo spegnimento da parte dei pompieri, accorsi, e costringono la polizia a sparare in aria come avvertimento; solo allora si daranno alla fuga. Guarini prosegue le cronache nei giorni seguenti e annota il finale, che vede l’affissione il 12 ottobre di un manifesto del Comitato che “sospende” lo sciopero, invitando il popolo a «preparare l’azione futura».
Fu un atto effimero: poche settimane dopo Sarajevo cambierà lo scenario europeo. I repubblicani stessi si divideranno tra neutralisti e interventisti e quasi tutti i protagonisti della Settimana Rossa evolveranno verso posizioni ben diverse da quelle allora sostenute. Mussolini diverrà interventista e creerà un giornale ad hoc; Bellini, divenuto sindaco di Forlì, riceverà il re in città nel 1916 e sarà da questi nominato regio senatore, Ubaldo Comandini entrerà nel 1916 come ministro nel governo di guerra, Armando Casalini, interventista, diverrà sindacalista fascista e deputato, per essere assassinato da uno squilibrato sull’onda delle emozioni per il caso Matteotti. La Grande Guerra aveva davvero operato una metamorfosi degli spiriti e delle idee politiche.